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Tutte le incognite del nuovo Patto di stabilità. Scrive Polillo

L’investire oggi, per dare alle nuove generazioni un mondo migliore, anche a costo di caricare sulle loro spalle un debito maggiore, rappresenta uno degli elementi più incerti del nuovo equilibrio fiscale europeo. L’analisi di Gianfranco Polillo

Chissà se la scommessa della Commissione europea, sottesa alla riforma del Patto di stabilità e crescita, avrà successo? Troppo presto per dirlo, anche se, questa volta, conviene scrutare nei fondi del caffè, per abbozzare, con largo anticipo, una possibile risposta. Le difficoltà maggiori sono relative al diverso orizzonte temporale preso in considerazione. Non più anno per anno, come è nel vecchio Patto destinato alla rottamazione, ma un ciclo pluriennale, che può durare quattro o sette anni a seconda delle circostanze. E dell’eventuale richiesta da parte dello Stato membro in affanno. In entrambi i casi il tempo è ritenuto sufficiente per riportare i parametri finanziari lungo la direttrice della sostenibilità. Che è poi quella prevista dal Trattato di Maastricht: indebitamento netto inferiore al 3 per cento del Pil e rapporto debito / Pil inferiore al 60 per cento. Soglie da raggiungere seppure progressivamente.

Sarà così? Difficile rispondere. La Francia, tanto per fare un esempio, che non è certo l’ultima arrivata, dal 2008 ha sempre sforato, salvo negli anni 2017 e 2018 in cui l’indebitamento è stato pari 3 ed al 2,3 per cento del Pil. Non sarà quindi semplice seguire la “traiettoria tecnica” che la Commissione dovrà definire, al fine di ricondurre la sua “spesa netta” nei confini previsti. Vale a dire un tasso di crescita “inferiore” a quella “della produzione a medio termine, nell’orizzonte del piano.” Tenendo, altresì conto, che l’aggregato monetario considerato (ulteriore complicazione) è costituito dalla “spesa pubblica al netto della spesa per interessi, delle misure discrezionale sulle entrate e delle altre variabili di bilancio al di fuori del controllo del Governo”. Considerato lo stato di tensione esistente nel Paese, a seguito della riforma proposta sul pensionamento, e le vere e proprie rivolte che si sono succedute, in relazione ad un obiettivo di riequilibrio finanziario tutt’altro che sconvolgente, non c’è quindi da essere ottimisti.

Da questo punto di vista, la situazione italiana è leggermente migliore. Dal 2012 in poi, infatti, il suo indebitamente è stato sistematicamente inferiore al 3 per cento. Uniche eccezioni il 2020 ed il 2021, anni in cui il Patto era stato sospeso a seguito delle vicende legate all’epidemia di Covid. Per l’Italia, tuttavia, vi sarà l’ulteriore incombenza di dover aggiornare la legge n. 243 del dicembre 2012, riflesso delle modifiche allora introdotte nell’articolo 81 del Costituzione. Trattandosi, in questo caso, di una legge rinforzata, essa potrà essere “abrogata, modificata o derogata solo in modo espresso da una legge successiva approvata ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione”, come recita appunto il comma 2 dell’articolo 1 della stessa legge. Fatica più che giustificata, in considerazione del fatto che l’eventuale Nuovo Patto dovrebbe semplificare notevolmente il contorto e spesso contraddittorio quadro contabile, oggi vigente.

Se questo vale per il passato, le prospettive future sono più incerte. Ed allora vale la pena partire dalle ultime previsioni della stessa Commissione e tentare una qualche simulazione. Per la Francia non si mette particolarmente bene. Le previsioni per il 2023 ed il 2024 mostrano un deficit di bilancio ben più alto del consentito. Pari al 4,7 ed al 4,3 per cento nel 2024. La contrazione sarebbe, di conseguenza, leggermente inferiore a quella canonica: un minimo dello 0,5 all’anno. L’Italia, invece, andrebbe molto meglio. Il deficit dovrebbe scendere dal 4,5 per cento di quest’anno al 3,7 del 2024. Con una riduzione di 0,8 punti, ben superiore al “minimo sindacale”. Più problematica, invece, in entrambi i casi il sentiero, fin troppo stretto, della riduzione del debito. Alla fine del biennio la riduzione sarebbe di uno striminzito 0,1 per cento. Troppo poco per accontentare i falchi della Commissione.

Si deve solo aggiungere che i valori medi dell’Eurozona non sono poi tali da marcare differenze eccessive. In media la riduzione del deficit di bilancio avrebbe la cadenza italiana: -0,8 per cento del Pil. Mentre il rapporto debito /Pil scenderebbe in modo più consistente: con un gradino pari allo 0,9 per cento del Pil. Con l’Italia le differenze più marcate si avrebbero nel 2024. Per l’anno in corso, invece, il rapporto debito/Pil, risulterebbe addirittura più virtuoso. Scenderebbe infatti di ben 4 punti, contro una media dell’Eurozona di poco più della metà. Merito soprattutto di due elementi: un tasso di crescita reale leggermente più elevato (1,2 contro 1,1 per cento) ed un’inflazione più sostenuta (6,1 contro 5,8).

Entrambi i fattori contribuirebbero ad accrescere il denominatore (Pil in termini nominale) riducendo il rapporto debito/Pil.
Nel breve periodo, quindi, l’UE non sembra partire con il piede giusto. Il suo tasso di crescita complessiva rimane troppo basso (1,7 e 1,6 per l’Eurozona), il debito diminuisce di poco (2,7 punti rispetto al 2022, 3,3 per l’Eurozona). Il dato che più colpisce è la persistenza di un notevole attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. In crescita dallo 0,6 al 2,4 per cento del Pil nel caso dell’Eurozona. Un po’ meno (da1,1 a 1,9 per l’intera UE). È il segno più vistoso di una politica tendenzialmente deflazionistica: conseguenza di una compressione della domanda interna, rispetto alle potenzialità dello sviluppo. La cui conseguenza sarà, con ogni probabilità, l’ulteriore rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro.

Allungando lo sguardo oltre il breve periodo, senza voler incorrere nel sarcasmo di Maynard Keynes, le preoccupazioni non sono da meno. Il Nuovo Patto conferma, in modo esplicito, tutti gli impegni assunti a livello europeo, per contribuire alla lotta contro il peggioramento climatico. Si va dalle operazioni di manutenzione straordinaria sugli immobili, per ridurre il consumo energetico fino alla messa a bando dei motori termici. Dal 2035 le emissioni di CO2 dovranno essere ridotte del 100 per cento. Di conseguenza non potranno essere più immatricolati veicoli leggeri con motore a combustione, alimentato a benzina o diesel. Con il provvedimento “casa green”, invece, l’UE intende ridurre, entro il 2030, le emissioni nocive (meno del 55% rispetto ai livelli del 1990) e raggiungere le emissioni zero entro il 2050. Tutti i nuovi edifici dovranno essere a zero emissioni a partire dal 2028, mentre quelli esistenti dovranno raggiungere la classe energetica E entro il 1° gennaio 2030 e D, entro il 2033. Per il riscaldamento si prevede il divieto di utilizzo di combustibili fossili entro il 2035 e l’abolizione di sussidi per l’installazione di boiler a combustibili fossili entro il 2024.

Sembrerebbero date lontane ed invece i loro riflessi si fanno già sentire. A Roma il Sindaco Gualtieri ha tentato di allargare la zona verde della città dalla quale escludere tutti i veicoli a benzina e diesel fino alla classe “euro 5”. Proteste a non finire da parte dei quartieri interessati. La maggior parte dei cittadini romani sarebbe costretta ad acquistare una nuova autovettura per i normali spostamenti, in una città in cui i servizi pubblici sono quelli che sono. Tra l’altro l’eccessiva concentrazione del provvedimento non farebbe altro che determinare una forte lievitazione dei prezzi, data la maggior domanda di mezzi di trasporto indotta da un provvedimento amministrativo. Forse ci sarà un ripensamento, ma il caso comunque ha assunto un valore emblematico.

Il rispetto dell’ambiente – lo dimostrano le recenti alluvioni che hanno funestato intere Regioni d’Italia – è cosa buona e giusta, ma richiede investimenti ed una diponibilità di risorse che mal si concilia con politiche tendenzialmente deflazionistiche, come quelle che si sono viste nel più breve periodo. La UE, quindi, deve scegliere: vuol realmente salvare l’ambiente? Ma allora non può cedere più di tanto alle preoccupazioni dei “Paesi frugali”. Gli sprechi, ovviamente sono da limitare e combattere, ma senza buttare il bambino con l’acqua sporca, al fine di sostenere un processo di riconversione produttiva di quella portata. Difficile pensare che tutto ciò possa avvenire senza costi aggiuntivi per le pubbliche finanze.

Nella proposta di riforma, ogni tanto, questa giusta preoccupazione fa capolino, specie quando ci si sofferma sulla necessità di un confronto personalizzato con i singoli Stati sovrani. La logica specifica dell’oggetto specifico: come si diceva una volta. Per tener conto del complesso dei parametri che dovrebbero caratterizzare una linea di politica economica. Ma poi prevale nuovamente il sacro rispetto per degli indicatori quantitativi: “stupidi” per definizione. Dovrebbero essere il totem posto a difesa degli equilibri di finanza pubblica.
Le regole fiscali europee – ha scritto recentemente Alberto Mingardi – sulle pagine de Il Corriere – sono un “patto tra coloro che vivono, coloro che sono morti e coloro che devono ancora nascere”. L’investire oggi, per dare alle nuove generazioni un mondo migliore, anche a costo di caricare sulle loro spalle un debito maggiore, rappresenta, quindi, una delle incognite della nuova equazione. Le cui soluzioni richiedono il bilanciamento tra le due opposte esigenze: quella della salvaguardia ambientale e della sostenibilità delle scelte finanziarie, che ne sono il presupposto. La riflessione è d’obbligo.

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