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Un Pd in bambola sull’Ucraina non serve all’Italia (né a se stesso)

Il partito che de facto ha guidato il Paese negli ultimi dieci anni sembra abbia timore di specchiarsi nella propria storia e nelle proprie decisioni passate. Come quella sul sostegno a Kiev nel solco dell’atlantismo (su cui già c’è stato l’harakiri del M5S con la Via della Seta)

“Questo governo rischia di distruggerci la vita”. Parole forti quelle usate, forse a sproposito, dal fisico Carlo Rovelli dal palco del concerto del Primo Maggio. Ma ancora più spropositato sembra essere il silenzio del Pd a trazione Schlein, che sul tema della risposta italiana all’invasione dell’Ucraina sembra stia imitando gli alleati grillini e non gli alleati europei (mentre il Governo si fa garante dell’Occidente).

Come se per una concomitanza di fattori politici e personali (il referendum sul no all’invio di armi a Kiev, la tesi sostenuta in Senato dal M5S secondo cui il governo toglie soldi alla sanità per finanziare gli aiuti all’Ucraina, l’esigenza del neo segretario dem di guadagnare titoli e spazi a sinistra) il partito che de facto ha guidato il Paese negli ultimi dieci anni abbia timore di specchiarsi nella propria storia e nelle proprie decisioni passate. Come quella sul sostegno all’Ucraina.

Più che valutare nel merito l’attacco personale di Rovelli al ministro Crosetto (“piazzista di strumenti di morte”), da un lato svetta la permeabilità dei media italiani alla narrativa filo-russa e, dall’altro, la difficoltà con cui il Nazareno si distingue dai cosiddetti pacifinti.

“Tutti dicono pace, ma aggiungono che bisogna vincere per fare la pace – ha aggiunto Rovelli – . Volere la pace dopo la vittoria vuol dire volere la guerra. Con le testate nucleari puntate addosso, il governo italiano sta decidendo di mandare una portaerei a fare i galletti davanti alla Cina: queste sono le scelte che rischiano di distruggere le nostre vite”.

Tre i rilievi di merito da fare. Primo, l’invio della Cavour nella regione dimostra non solo l’intenzione italiana di essere parte attiva, ma di farlo in sinergia con i partner asiatici ed euro-atlantici, senza dimenticare che le forze armate europee sono da tempo proiettate in quell’area. Una postura che ricalca quella euroatlantica tenuta dal Pd in tutti i governi dello scorso decennio e non, a quanto pare, dall’attuale governance democratica.

In secondo luogo, e questo passaggio rappresenta un elemento delicato e al contempo inquietante, si compie un’inversione a U nella storia atlantista del Pd nato al Lingotto, a meno che dall’era geologica Schlein in poi si sia deciso (senza un congresso) di mutare rotta e obiettivi. Legittimo il cambio di opinione, ma irrituale rispetto al percorso occidentale, fin qui parallelo, di Pd e dell’Italia.

Infine il binomio spesso tossico e, per certi versi, fuorviante fra piazze e pace: in un momento caratterizzato dal ritorno dell’Italia nell’alveo atlantico, dopo le recenti inclinazioni cinesi del M5S culminate con la firma sul Memorandum della Via della Seta, l’ulteriore distacco del Pd di Schlein dalla storia moderna del Paese rappresenta un altro duro colpo all’immagine internazionale dell’Italia, proprio mentre la stampa straniera riconosce al governo di Roma affidabilità e concretezza (dall’Ucraina, ai conti pubblici fino al rapporto tra Roma e Washington).


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