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Riformare i trattati, solo così l’Ue avrà vita lunga (e nuova). Parla Mauro

Intervista all’esponente popolare, già vicepresidente del Parlamento di Bruxelles, in occasione della giornata dell’Europa: “La nostra fortuna? Si chiama Ue, ci ha evitato una guerra per 80 anni: e non è poco, di questi tempi. Nella testa di troppi a sinistra vedo l’Unione europea somigliare a una sorta di Unione delle Repubbliche socialiste europee di cui onestamente non sentiamo il bisogno”

Ridiscutere i trattati significa poter avere un’intesa vera di politica estera, un reale impegno comune per la difesa che faccia di noi un soggetto alla pari degli Stati Uniti. Lo dice a Formiche.net l’ex ministro della difesa Mario Mauro, esponente del Ppe e già vicepresidente del Parlamento di Bruxelles, raggiunto telefonicamente a Strasburgo. In occasione della giornata dell’Europa affida a queste colonne una serie di riflessioni su cosa ha rappresentato fino ad oggi l’Ue (“la nostra fortuna”) e su come potrà ancora farlo in futuro (“Se il punto più avanzato del rapporto tra l’Unione europea e il golfo è Di Maio, allora partiamo da lui”).

Quali sono oggi le condizioni attuali dell’europeismo e come declinarlo sulle nuove sfide che la contingenza porta all’attenzione dell’Ue (guerra, energia, geopolitica, flussi, inflazione)?

Come in ogni progetto politico non dobbiamo mai dimenticare il dato essenziale. Quella che noi chiamiamo Unione europea non è un dogma di fede. Ciò che noi chiamiamo Unione europea è un progetto politico, che peraltro è mutato nel tempo e ha avuto una genesi all’insegna delle esigenze della riconciliazione. Ha individuato dopo la seconda guerra mondiale un metodo, quello di mettere in comune come risorsa ciò che fino al giorno prima era motivo del conflitto: la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Oggi è radicalmente differente.

Quali i problemi dell’Unione europea di oggi e quali le differenze e i vantaggi rispetto al periodo “neonatale” dell’Ue?

Innanzitutto una contrazione della dimensione comunitaria. Dagli anni ’90 ad oggi c’è stato un periodo della storia che ha visto privilegiare la politica. Seconda questione: una sostanziale mancanza di democrazia ma soprattutto di iniziativa legislativa della Commissione, ovvero una difficoltà nel controllare da parte del Parlamento ciò che fa la Commissione europea. Una difficoltà che, negli ultimi anni, è cresciuta per via di uno strumento che in Italia si chiama decreto delegato, con cui con costanza l’Unione europea ha sottratto al Parlamento europeo la sua funzione di vigilanza e la sua prerogativa. Terza questione, i trattati: paradossalmente siamo in grande difficoltà perché noi integriamo ciò che, per applicazione del principio di sussidiarietà, dovrebbe essere in modo privilegiato competenza degli Stati e non integriamo ciò in cui è necessaria la competenza europea, a partire dalla Comunità europea di difesa e di politica estera.

Quale il nervo scoperto?

Le istituzioni europee hanno cercato, in una integrazione che punta all’omologazione nella propria attività di regolamentazione, ciò che non riescono a produrre come integrazione politica. Per cui mentre da anni ci dibattiamo se l’Unione europea debba essere una federazione o una confederazione, come chiede la Presidente del Consiglio italiano nella sua riflessione politica, in realtà l’Unione europea non si muove da questa formula ambigua che lascia scoperto il nervo del non sapere chi decide, come e quando. Alla fine nell’Unione europea prevale la logica non solo del più grosso, ma anche di quello maggiormente capace di fare alleanze e quindi a cavallo tra il Consiglio e i gruppi parlamentari, finisce con l’essere egemone, mortificando lo spirito e la dimensione comunitaria. Mi riferisco a chi, per esempio, voglia non una Germania europea, bensì un’Europa tedesca.

Chi l’ascolta potrebbe essere portato a pensare che l’Ue sia stata un fallimento?

Assolutamente no, non l’accetto neanche come provocazione perché io probabilmente potrei finire la mia vita dicendo non ho mai visto in faccia nel mio Paese o intorno a me la guerra, nel senso di un progetto bellico che realmente metta a repentaglio la mia vita e quella dei miei figli. Noi siamo una generazione fortunata, la nostra fortuna si chiama Unione europea. Accanto a questo c’è la questione di carattere economico data dalla zona di libero scambio: il lavoro svolto non è poco e lo dimostra la risposta europea a tre crisi come Lehman 2008, Covid e guerra in Ucraina, senza dimenticare l’implosione del sistema sovietico che ha portato all’ingresso di dieci Paesi dell’est Europa. Infine il recovery plan e, da ultima, questa apparente compattezza sul tema della guerra. Per cui le premesse per fare oggi un’integrazione anche di carattere politico ci sono tutte: ovviamente il cuore della sfida si trova anche al di là delle famiglie politiche.

E dove?

Da un lato vedo una tendenza che vuole smetterla con la cessione di sovranità nei confronti delle istituzioni comunitarie e, dall’altro, c’è una tendenza che non solo vuole insistere con la cessione di sovranità ma la vuole far diventare quasi un modello omologante di altre costruzioni che non hanno lasciato magari un buon ricordo di sé. Nella testa di troppi a sinistra vedo l’Unione europea somigliare a una sorta di Unione delle Repubbliche socialiste europee di cui onestamente non sentiamo il bisogno. Rispetto a questo io sono convinto che, come agli inizi, sarà la qualità delle leadership a dire di più sul futuro. Il grosso problema dopo tanti anni è che noi siamo alla ricerca dei De Gasperi, degli Schuman, degli Adenauer, degli Spinelli, dei Churchill.

Anche Churchill?

Sì, ricordo a tutti che il primo che in qualche modo ha parlato esplicitamente di Stati Uniti d’Europa si chiamava Winston Churchill. Incredibile che l’uomo che è il distintivo del partito che ha voluto Brexit sia quello che più di tutti ha sognato l’Europa unita.

Come costruire una governance europea meno burocratica e più diretta quanto a politiche e azioni?

La riforma delle riforme è riaprire i trattati: abbiamo finora gestito progetti di convenzione che vivevano nel presupposto di non toccare i trattati esistenti. Io credo che chi annuncia riforme senza sbloccare i trattati commette un errore. Un trattato non è vincolante, certo, ma può diventare opprimente. Ridiscutere i trattati significa poter avere un’intesa vera di politica estera, un reale impegno comune per la difesa che faccia di noi un soggetto alla pari degli Stati Uniti. Ad oggi l’Ue sui dossier più importanti come guerra, energia, flussi sta andando in ordine sparso per cui mi chiedo: da questo punto di vista qual è il punto più avanzato del rapporto tra l’Unione europea e i Paesi del Golfo? Se è Luigi Di Maio allora partiamo da lui. Io sono una persona pragmatica, dico che laddove c’è una volontà che oggi si traduce nella nomina di un inviato speciale, vuol dire che quella volontà ha carattere politico. Quindi cerchiamo di avere attenzione alla volontà politica e mettiamo da parte tutte le vecchie questioni.

@FDepalo


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