Skip to main content

Attenzione a un presidenzialismo insostenibile. La versione di Cheli

Mettere da parte l’idea del “sindaco d’Italia”, valutare con attenzione cosa ha funzionato e cosa no nei 75 anni di vita repubblicana e rafforzare il Parlamento, non metterlo da parte. Governo Meloni e riforme, i consigli del costituzionalista Enzo Cheli

Riforma sì, ma attenzione ad abbandonare il modello parlamentare. Enzo Cheli, costituzionalista, membro dell’Accademia dei Lincei, vicepresidente emerito della Corte costituzionale ed è stato presidente dell’Agcom, arriva alla sua conclusione rispetto alle proposte di riforma costituzionale facendo un percorso sia storico che politico, che parte proprio dalla nascita della Costituzione che proprio quest’anno ha compiuto 75 anni, di cui si trovano riferimenti nel suo ultimo libro pubblicato dal Mulino, “Costituzione e politica – Appunti per una nuova stagione di riforme costituzionali”. Attenzione, spiega il professore, che il salto da una forma di governo parlamentare a una presidenziale con lo scopo di una maggiore stabilità e govenabilità entra in conflitto con la sostenibilità del sistema costituzionale nel suo complesso.

Professore, ma in Italia è impossibile fare le riforme costituzionali?

No. In realtà da quando è nata la Costituzione 75 anni fa è stata modificata su punti particolari, ma di un certo rilievo, una trentina di volte. Quelle che sono sinora fallite sono le cosiddette grandi riforme, cioè quelle che andavano a toccare l’impianto della forma di governo, la riforma di cui in pratica si parla anche oggi.

Qual è la principale difficoltà?

La difficoltà di fare le riforme in tutti questi anni è data dal disaccordo che esisteva tra le forze politiche sul perché fare la riforma e come farla. Oggi questo disaccordo in parte è superato, sul “perché” mi sembra che esista un orientamento dell’opinione pubblica e dell’opinione politica, sia a destra che a sinistra, favorevole a una riforma che abbia come obiettivo rafforzare la stabilità dell’esecutivo e rafforzare l’efficienza dei governi.

Cosa non ha funzionato in passato?

Le riforme passate sono fallite o per volontà parlamentare, nel caso delle 3 bicamerali, o per volontà popolare, nel caso dei referendum costituzionali del 2006 e del 2016, ma come dicevo, oggi si assiste a un piccolo passo avanti sul perché fare la riforma. Le divergenze restano, e sono molto profonde, sul “come” farla.

Veniamo all’oggi, quindi. Dai colloqui del governo con le opposizioni sono emersi tre ipotesi. Presidenzialismo con elezione diretta del Presidente della Repubblica, che è anche capo del governo; semipresidenzialismo alla francese oppure l’elezione diretta del presidente del consiglio. Cosa ne pensa?

Prima di vedere quale tipo di presidenzialismo c’è da fare una scelta di fondo nel nostro sistema: se la riforma di una forma di governo come quella italiana debba essere costruita sul versante di un rafforzamento e di una razionalizzazione del modello parlamentare che già usiamo, oppure debba essere fatta con un salto di corsia, cioè abbandonando il modello parlamentare per entrare in un modello presidenziale.

Le formule finora emerse di che tipo sono?

Le tre formule secche da lei richiamate e che sono emerse nel dibattito sono tutte e tre formule che abbandonano nella sostanza il modello parlamentare e trasferiscono il perno dei poteri o sul Capo dello Stato – presidenzialismo puro – o sul primo ministro – così detto sindaco d’Italia eletto dal Paese. Ecco, per fare un salto di corsia oggi il tema è così complesso e delicato che a mio avviso prima si debba fare due analisi approfondite.

Quali?

Una che riguarda il sistema politico, dal momento che la forma di governo è il vestito che deve rivestire il sistema politico e si tratta di individuare se questo vestito è adatto e può funzionare. Un’altra è il percorso storico del nostro impianto costituzionale, com’è nato e come ha funzionato. Se facciamo una riforma di questo tipo è giusto colpire ciò che non ha funzionato, ma non travolgere anche ciò che ha funzionato. E allora bisogna individuare una linea di confine tra ciò che ha funzionato e ciò che non ha funzionato con una valutazione storica. Aggiungere anche la valutazione su quali sono le condizioni ora del nostro sistema politico.

In che senso?

Cioè se il nostro sistema politico sia in grado di reggere un tale salto di corsia, nel passaggio al governo presidenziale. Le dico subito che io vedo con molto timore e molta apprensione questo salto di corsia.

Per quale ragione?

Per la ragione sia storica che politica. Partirei dalla ragione politica. Quando la Costituente in Italia scelse il governo parlamentare, nel settembre del ’46, nella sottocomissione della costituente, e fece la relazione di base, per arrivare a questa scelta fu Mortati (Costantino, ndr). Egli concluse che l’Italia aveva un sistema politico con molti partiti, molto divisi. Cioè il sistema politico da cui si doveva partire, diceva Mortati, era la disomogeneità. Per un sistema di questo tipo, continuava, il sistema presidenziale è deleterio, perché accentua le divisioni e mette ai margini le minoranze rispetto alla maggioranza. Per un sistema con molti partiti, molto divisi, la formula naturale per una democrazia è un governo parlamentare che favorisce il colloquio e la convivenza tra le forze.

E oggi?

Sono passati 75 anni, ma se guardiamo bene la struttura del sistema politico italiano, nella sostanza non è cambiata. Anche oggi siamo in presenza di una realtà politica molto divisa, frammentata, disomogenea. Il governo presidenziale presuppone una forte coesione di base, la presenza insomma di due grandi schieramenti politici e in Italia non ci sono. Allora questo salto di corsia da una forma parlamentare a una forma presidenziale, sia quella americana che quella francese sia qualsiasi altra forma, va fatta sulla base di una valutazione profonda delle condizioni del sistema politico.

Tra i vantaggi, secondo i proponenti, di una forma presidenziale di governo, ci sarebbe la maggiore governabilità, in un Paese che vede i governi troppo deboli e che hanno una durata di meno di due anni. È davvero così?

Quando si rafforza la governabilità bisogna fare attenzione alla sostenibilità dell’impianto democratico. In sistema politici fragili come il nostro – fragili perché molte forze politiche, molto divise, e molta contrapposizione tra forze sociali e istituzioni, oggi c’è un divario che sta crescendo con l’astensionismo – accanto al problema della governabilità c’è un problema di sostenibilità dell’impianto democratico. Se supero un certo limite forzando le condizioni di base del sistema politico, apparentemente si rafforza il governo, ma nella sostanza si indebolisce il sistema costituzionale. E di nuovo, il problema diventa storico: capire quindi cosa ha funzionato bene, nella nostra Costituzione, e cosa no.

Ce lo dica lei. Cosa ha funzionato e su cosa, invece, si dovrebbe intervenire?

Partiamo dicendo che questa Costituzione, nel complesso, ha funzionato bene, perché ha garantito 75 anni di unità del Paese, ha garantito il radicamento del quadro delle libertà della prima parte, ha favorito uno spostamento dei poteri dal centro alla periferia. Cioè ha costruito un modello democratico. Cosa ha funzionato bene e ha favorito il radicamento della democrazia? Hanno funzionato bene i poteri di controllo, in particolare affidati al Capo dello Stato, alla Corte costituzionale e alla magistratura.

Cosa ha funzionato male?

Non tanto il governo in sé, che in realtà si è dimostrato un organo forte con poteri sostanziali reali, ma non ha funzionato bene l’indirizzo politico, cioè il raccordo tra corpo elettorale, Parlamento e governo. È lì che si deve intervenire ed è lì che si fa una riforma della forma di governo. Però questa riforma non può essere tutta concentrata sull’esecutivo. Oltre al modello in sé, si deve mettere in gioco una riforma della politica, la riforma elettorale, la democrazia interna dei partiti, la comunicazione politica, il conflitto di interessi.

Quindi?

Quindi la prima conclusione è: sì, cambiamo la forma di governo per rafforzare l’esecutivo, ma attenzione, la debolezza dell’esecutivo non nasce tanto dal modello quanto da quello che sta sotto il modello, dalle disfunzioni del sistema politico. Allora insieme con la riforma della forma di governo, in parallelo si deve puntare anche sulle riforme della politica che si fanno con legge ordinaria e con gli sviluppi della prassi. Toccando i poteri del Capo dello Stato, invece, cambiamo qualcosa che ha funzionato.

Si toglie il potere di controllo in capo alla Presidenza della Repubblica?

Il Capo dello Stato da organo arbitrale di garanzia, che garantisce l’unità del sistema e perciò maggioranza e minoranza diventa il rappresentante della maggioranza e il capo dell’esecutivo. A questo punto si indebolisce le garanzie delle minoranze e si indebolisce tutta la stabilità dell’impianto. Ecco che il problema della governabilità entra in conflitto con quello della sostenibilità. Oggi siamo in presenza di una maggioranza che si appresta a fare una riforma di questo tipo e cavalca l’idea presidenziale, che non ha una rappresentanza di maggioranza effettiva nel Paese, considerando l’astensionismo, e questo rende rischiosa l’operazione.

Non fare riforme, quindi?

No, le riforme vanno fatte, ma cerchiamo di non abbandonare quello che ha funzionato.

In che modo cambiare la Costituzione nei termini proposti dalla maggioranza, potrebbe influenzare anche il rapporto con l’Unione europea?

Il processo europeo, che oggi è in una fase abbastanza critica ma che va avanti e su cui è impossibile tornare indietro, ha portato ormai a un mix costituzionale. 70 anni fa la Costituzione italiana regolava l’intero quadro nazionale e con delle ammorsature e con dei rapporti con il quadro europeo e internazionale. Oggi invece è intrecciata con la costituzione europea che non esiste in modo formale, ma esiste nella sostanza attraverso i trattati e attraverso il dialogo tra le corti costituzionale e europea. Oggi c’è l’articolo 11, una parte di sovranità è stata ceduta all’organizzazione europea che ha sempre più le caratteristiche di uno stato federale, anche se di fatto non lo è, e bisogna tenerne conto.

Intravede una volontà, insita in questa proposta di riforma, di riportare quella sovranità a livello nazionale e non più europeo?

All’inizio, prima che si svolgessero le ultime elezioni, c’erano state dichiarazioni dell’area di Fratelli d’Italia favorevoli a una riconquista della supremazia del diritto nazionale rispetto al diritto europeo. C’erano stati addirittura dei progetti di legge che affermavano una linea diciamo ungherese o polacca, ossia affermavano espressamente una riforma costituzionale che diceva che la Costituzione italiana ha una collocazione di supremazia, invertendo il rapporto che si è stabilito nel colloquio tra le corti. Ecco mi sembra però che questa posizione di Fratelli d’Italia sia un po’ cambiata dopo le elezioni.

In che senso?

Nel senso che ora si dà più attenzione alla componente europea, la forza dei trattati, rispetto alla dimensione della Costituzione italiana. Non è ancora stato enunciato espressamente qual è il punto di equilibrio, ma ho l’impressione che se l’Europa entra in gioco in questo progetto di riforma allora sarà in termini collaborativi e non di rovesciamento del rapporto per cui la Costituzione diventa suprema rispetto al diritto europeo.

Professore, se avesse ora il numero di Giorgia Meloni, una linea diretta con il governo, che consiglio darebbe su questo tavolo di riforma costituzionale?

Per prima cosa direi che si parla con troppa disinvoltura del sindaco d’Italia. Considero questa ipotesi la più rischiosa di tutte nelle condizioni attuali del sistema politico italiano perché l’elezione diretta del primo ministro significa mettere fuori quadro le cose che hanno funzionato nel nostro sistema costituzionale: azzerare il sistema di fiducia delle camere al governo, emarginare il Parlamento, accentuando un percorso che è in atto da anni. Significa poi indebolire il Capo dello Stato, eletto dal Parlamento. Per quanti poteri possa conservare è destinato a contare molto di meno nella distribuzione dei pesi politici di un primo ministro eletto dal popolo. Quindi direi, parlate molto di questa alternativa al presidenzialismo di tipo americano, eleggendo invece col modello israeliano il primo ministro, ma attenzione: questo modello storicamente non ha mai funzionato.

Meloni potrebbe dirle, e allora che fare?

La riflessione storica spinge inevitabilmente nella direzione della conservazione del modello parlamentare: significa voto di fiducia riferito al solo primo ministro, revoca dei ministri da parte del primo ministro, sfiducia costruttiva, significa rafforzare in parallelo il ruolo del Parlamento, usare maggiormente il Parlamento in seduta comune sulle cose come la fiducia. Significa tante possibili novità, inserite in un quadro in cui il Parlamento rimane il perno del sistema. Non so se Meloni sarebbe d’accordo, ma su qualcosa ha già cambiato idea.

Perché lo dice?

Prima Meloni era molto propensa all’elezione diretta del Capo dello Stato, poi ci ha un po’ ripensato e ha fatto affermazioni come “i poteri del Capo dello Stato non si toccano”. Ecco, è già un passo avanti. Non so da dove derivi questa evoluzione, ma forse proprio da una analisi su ciò che ha funzionato che è bene non toccare.



×

Iscriviti alla newsletter