Il presidenzialismo spacca il Paese, mentre all’Italia serve qualcosa che ci unisca nel rispetto delle diversità nello Stato di tutti. Ma recuperare il valore del compromesso, cioè l’inizio del rispetto reciproco almeno nella designazione dell’arbitro potrebbe essere una scelta indispensabile per dare una vera stabilità più che ai governi alle istituzioni. La riflessione di Riccardo Cristiano
Gli anni del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica li ricordo bene. Eravamo tutti, o quasi tutti, convinti che abbandonare il sistema proporzionale fosse una necessità. In un’epoca che imponeva decisioni in tempi stretti, veloci, come quella che si apriva davanti a noi, i bizantinismi del pentapartito erano un peso, servivano governi stabili, con maggioranze parlamentari solide, compatte. E così passammo dal non più efficace sistema proporzionale a quello maggioritario, con il nome del candidato premier sui simboli. Eppure le maggioranze sono rimaste friabili, i governi hanno avuto bisogno delle maggioranze di unità nazionale per trovare un po’ di stabilità.
Ora si pensa a modificare la forma di governo, non più la legge elettorale, per trovare stabilità. Eppure sappiamo benissimo che il presidenzialismo americano, la forma più stabile di governo democratico che si conosca, sempre più spesso convive con una Camera, se non entrambe, di segno politico diverso rispetto alla Casa Bianca, il che produce una stabilità instabile, cioè basata sulla necessità di non fare proprio quel che Presidente vorrebbe.
Anche in Francia il semi-presidenzialismo ha prodotto in molte circostanze la necessità della coabitazione, cioè quel sistema di “larghe intese” che non piace a nessuno. Altrettanto è evidente per il cancellierato tedesco, dove dopo la lunga stagione di coabitazione tra democristiani e socialdemocratici ora è arrivata la trasversalità maggioritaria del governo socialdemocratici, liberali, verdi. Dunque mi chiedo se la malattia della politica sia quella che abbiamo identificato nell’instabilità. Tutto sommato l’instabilità della prima Repubblica era un costante ricambio degli equilibri interni al governo nella costanza della formula governativa che garantiva tutto sommato una forma indiretta ma sostanziale di stabilità. Altrimenti dovremmo concludere che la stabilità è assicurata soltanto dalle dittature, dove si vota quasi sempre ma i governi permangono al potere per secoli.
Il problema a me sembra che sia un altro, potremmo chiamarlo “rappresentatività”. Nella lunga stagione delle ideologie e dei partiti di impianto ideologico, democristiani, socialdemocratici, socialisti, liberali e così via, la rappresentatività era garantita da una condizione: io mi sentivo rappresentato da chi condivideva un’ideologia. Ora? Ora si cerca di ritrovare rappresentatività grazie alla stabilità del leader. È la personalizzazione della politica, che sostituisce alla politica delle proposte quella della narrazione. Ricordo due esempi: il fascicolo patinato che Berlusconi inviò per raccontare la sua vita agli italiani quando iniziò la sua attività politica: narrazione. Cosa assai simile fece Obama, raccontando sé stesso. Il leader così propone la sua vita come programma.
Funziona, certamente, ma ha creato stabilità? Come il mito del posto sicuro e per sempre, del matrimonio per tutta la vita, della pensione dai sessant’anni alla tomba, la stabilità è necessaria, ma è anche un mito infantile. Non possiamo negare che anche nell’instabilità si sono costruiti equilibri di vita migliori. Una sfida lavorativa opportunamente vissuta e accettata può farci crescere, migliorare, come un secondo amore se il primo era rimasto solo sulla carta.
Cosa serve allora all’Italia per ritrovarsi? La mia piccola esperienza quotidiana mi dice che troppo semplicemente si potrebbe dire che oggi “nulla funziona”, soprattutto nella sanità siamo a un passo dal baratro, ma dei soldi del Mes per la sanità nessuno più parla. La mia risposta è che ci servirebbe quella che gli inglesi chiamano “rule of law”, espressione abbastanza chiara per chi la conosce e che di norma si traduce con “imperio della legge”.
Forse le stesse modalità di nascita del nostro Paese hanno fatto del nostro Stato un nemico, non un amico. Oggi mi sembra che questo sia il nostro vero problema. Cominciare applicando la legge dall’alto, per i potenti, sarebbe la riforma più importante per renderla applicabile e rispettabile anche da noi altri, i non potenti. E invece il sistema fiscale è ingiusto, vessatorio, perché solo pochi pagano le tasse, e così il sistema è diventato ancora più ingiusto. Cominciamo dall’alto a smantellare l’inimicizia dello Stato e verso lo Stato. Le leggi ad personam, i diffusi conflitti di interessi, ci hanno persuaso che la legge è fatta per essere aggirata, elusa, che lo Stato è un nemico, per loro e quindi per noi.
Una vera riforma della politica potrebbe dare stabilità al Paese nella rappresentatività effettiva. Ma non inseguendo il mito di una politica “senza soldi”: la politica costa, è stato e sarà sempre così. Ma un circuito limpido di finanziamento della politica penalizza chi lo viola, punisce chi lo aggira, si basa sulla trasparenza. Riportare la politica al servizio dei cittadini e non il contrario è la prima riforma che serve a tutti i politici. Rifacendo i partiti? Questo io non lo so. Di certo ricreando il senso delle istituzioni e dell’imperio della legge.
Certo “partiti” dai nomi fantasiosi non aiutano, sembrano aggregazioni di amici di questo o di quello che poco danno il senso di un servizio per migliorare il Paese invece che i propri destini.
Il presidenzialismo spacca il Paese, mentre a noi serve qualcosa che ci unisca nel rispetto delle diversità nello Stato di tutti. Ma recuperare il valore del compromesso, che non è inciucio, ma l’inizio del rispetto reciproco almeno nella designazione dell’arbitro, mi sembrerebbe una scelta indispensabile per dare una vera stabilità più che ai governi alle istituzioni. Con quel che ne seguirebbe.