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Stranizza d’amuri, la caccia all’amore raccontata da Beppe Fiorello

Una storia di amore omosessuale di due adolescenti, raccontata con delicatezza e pudore, “Stranizza d’amuri” (2023), segna l’esordio alla regia di Giuseppe Fiorello. Una sceneggiatura debitrice del racconto novecentesco, aiutata da una fotografia “divisionista” e dalla performance di due ottimi esordienti

Apertura su una caccia al coniglio selvatico nella assolata, arida, campagna siciliana, che poi capiremo, di quarant’anni fa. Un adulto insegna ad appostarsi, a prendere la mira, e a sparare, ai due nipoti, con un fucile da caccia: il sedicenne, Nino (Gabriele Pizzurro) e il più piccolo Totò (Simone Raffaele Cordiano).

Nino aiuta suo padre Alfredo (Antonio De Matteo) esperto di fuochi di artificio ad allestire i botti nelle “fiere” dei paesi. Parallelamente seguiamo anche la storia di un altro interno, sempre in quella povera e desolata provincia. Il diciassettenne Gianni (Samuele Segreto), apprendista presso una scalcagnata officina meccanica per moto e motorini, vive con la madre Lina (Simona Malato), che non ha più marito, ora convivente e ospitata in casa del proprietario dell’officina. Un codardo e rude uomo che non sopporta il tranquillo Gianni.

Gianni è fatto oggetto di pesanti provocazioni in pubblico, nell’unico bar del paese, ritrovo di machi e bulli, da alcuni di questi, poiché considerato una “femminuccia”. Le due strade sterrate percorse un giorno dai due ragazzi, su due rispettivi motorini, si incontreranno per un incidente non causato da loro, ma dai bulli che inseguono Nino per violentarlo.

Beppe Fiorello con Stranizza d’amuri (2023), all’esordio come regista, dopo una carriera intensa e ricca d’interpretazioni egregie, attraverso un racconto lineare ma non scontato, entra nel mondo dell’amore adolescenziale gay con la delicatezza di L’età acerba (1995) di André Techiné. La sceneggiatura (Andrea Cedrola, Carlo Salsa, Beppe Fiorello) tratteggia, con pochi schizzi netti e senza pleonasmi, sia i due giovani protagonisti, sia i rispettivi genitori e le altre figure narrative. Amorevoli e affettuosi, i genitori, finché non vengono investiti dal “disonore” del figlio “diverso”, passano rapidamente ai divieti e alle raccomandazioni (Lina la mamma di Gianni) e alle botte (lo zio paterno di Nino) come metodi correttivi. Ma l’amore dei due ragazzi resiste, agli oltraggi pubblici, alle percosse, agli sfottò sui muri. Sino al tragico epilogo che chiude iconograficamente il tema del fucile, della caccia, dello sparo. Dalla caccia al coniglio selvatico alla caccia dell’amore indegno. Sparare su degli innocenti.

“Siano partiti – spiega Beppe Fiorello – da una notizia di cronaca. Un piccolo ritaglio di giornale che mi portavo con me da anni: due ragazzi innamorati venivano uccisi in un piccolo paese della Sicilia per aver osato a non rinunciare al loro sincero amore. Naturalmente vi sono state delle varianti di sceneggiatura, l’ambientazione al tempo dei mondiali, la storia spostata verso l’adolescenza, ecc. Ma il messaggio è legato a quel triste fatto di emarginazione, esclusione, scherno, rifiuto del ‘diverso’ da parte di una comunità razzista che poi si chiude, purtroppo, con un doppio omicidio”.

Va riconosciuto a Beppe Fiorello un innegabile tocco nella direzione degli attori, come nella scelta dei collaboratori, partendo sin dalla sceneggiatura. Il finale, per quanto da alcuni prevedibile – quel fucile dell’incipit infatti doveva terminare il suo giro di 360°-, non è registicamente scontato. Non facendoci vedere chi abbia sparato (i sicari inviati da Alfredo Scalia? Il piccolo Totò che non ha mai digerito la gelosia verso Gianni che gli sottraeva Nino dai giochi? I violenti omofobi del bar?), Fiorello opta per il racconto novecentesco a finale aperto: quello che va da Citizen Kane (1940) di Welles, passando per il Kurosawa di Rashomon (1950) sino al Kieślowski di Przypadek (Destino cieco, 1981). Allo spettatore, dunque, proporre il/i colpevole/i che nella realtà, a Giarre, non vennero mai fuori.

Stranizza d’amuri si giova felicemente della fotografia “neo-divisionista” di Ramiro Civita  (non lontano dalla lezione di Luciano Tovoli), una pulsante tavolozza negli esterni assolati in campagna e in paese, con soluzione notturna di dominante giallo ocra nella scena dei fuochi d’artificio, ma anche dai bilanciati contrasti luce/ombra di popolari interni di un Sud dimenticato dalla Storia. Come encomiabile è la ricerca scenografica e dei costumi condotte, rispettivamente, con certosina filologia antropologica, da Paola Peraro e Nicoletta Taranta.

La colonna sonora composta Giovanni Caccamo (Mocambo, Lacrime) e Leonardo Milani (Luntanu; Curri curri) ricrea, tra classico e toni pop, l’atmosfera di quei momenti sereni e altri tesi delle nostre vite anni Ottanta: tra ottimismo da valigetta 24 ore, crisi economiche interminabili, stragi di Stato, esecuzioni mafiose, assassinii privati.



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