Secondo Del Pero (SciecensPo), l’essenzalismo geopolitico di Henry Kissinger, seppure criticabile, offre una bussola chiara e inequivocabile a chi vuole navigare nelle turbolente acque delle relazioni internazionali. Ecco perché
“Il modo di rappresentare la politica mondiale di Henry Kissinger è sempre stato essenzialista: in fondo c’è un carattere innato nelle nazioni che definisce la loro immutabile identità e, se correttamente decifrato, aiuta a spiegare le loro scelte di politica estera. Che si tratti dell’infatuazione dell’America per le soluzioni legalistiche (e finaliste), della perenne ansia di status della Russia, dell’insicurezza congenita della Germania o del sottile e storicamente consapevole confucianesimo della Cina, le politiche estere delle nazioni sono guidate da elementi immutabili, anzi essenziali: culturali, demografici, geografici”, spiega Mario Del Pero, professore di Storia internazionale del Centre d’Historie del prestigioso ateneo parigino SciencesPo.
In una conversazione con Formiche.net, il docente italiano, tra i massimi esperti europei di politica statunitense e autore di “The Eccentric Realist. Henry Kissinger and the Making of American Foreign Policy” (Cornell University Press), analizza i cento anni del più iconico dei segretari di Stato americani, che oggi, sabato 27 maggio, spegne le candeline. Un pezzo di storia degli Usa, è un pezzo di storia del nostro tempo. Vecchio saggio della politica mondiale che rilascia ancora interviste e, di tanto in tanto, scrive op-edit oracolari, che gli appassionati di politica estera “sfogliano nel tentativo di dissipare le fitte nebbie della politica globale o per impressionare i loro amici a tavola”, ironizza Del Pero.
Kissinger rimane l’oggetto dell’infinito interesse, se non del fascino, di legioni di studiosi di relazioni internazionali, opinionisti, giornalisti e del pubblico informato in generale: perché? “Sia gli apologeti che i detrattori aderiscono all’idea che Kissinger fosse, e sia tuttora, un realpolitiker amorale ma coerente. Per questi ultimi, egli è un campione cinico e senza principi della politica di alto potere, che ha costantemente giustificato e attivamente promosso i suoi peggiori eccessi. I primi lo considerano un onesto amministratore dell’interesse nazionale, che insegna al pubblico la natura ineluttabile (e brutale) delle relazioni tra le nazioni e smaschera l’ingenuità interiore, tanto pericolosa quanto ipocrita, degli entusiasti dei diritti umani, dei visionari della promozione della democrazia e dei teorici della supremazia del diritto internazionale”.
“Il suo tipo di essenzialismo geopolitico può essere criticato, persino ridicolizzato, su molteplici basi — continua Del Pero — ma alla fine offre una bussola chiara e inequivocabile a chi vuole navigare nelle turbolente acque delle relazioni internazionali: un semplice passepartout che molti lettori e ammiratori di Kissinger ritengono possa aprire le porte degli arcani altrimenti impenetrabili della politica globale”.
La popolarità di Kissinger, tuttavia, è anche legata a qualcosa di molto specifico degli Stati Uniti moderni, non è così? “La sua politica estera ha spesso oscillato tra progetti messianici (e irrealistici) di salvataggio e trasformazione di altri Paesi e regioni, e grandi delusioni, segnate dalla conseguente richiesta di ritirarsi da un mondo profondamente ingrato e, in ultima analisi, irredimibile”, risponde Del Pero.
Nei periodi di crisi, di introspezione e di dubbi, la retorica cupa e le raccomandazioni chiare di Kissinger sono sembrate offrire una semplice via d’uscita da qualsiasi enigma strategico o morale: perseguire l’interesse nazionale; abbandonare le utopie melioristiche impraticabili; non confondere la morale con il moralismo. “Come disse una volta, durante una delle crisi che seguirono la catastrofe del Vietnam, spesso arriva il momento per gli Stati Uniti di ‘affrontare la cruda realtà’ e ‘imparare a condurre la politica estera come altre nazioni hanno dovuto condurla per tanti secoli senza scampo e senza tregua’. La fama di Kissinger ha sempre riflesso la sua immagine di europeo colto, dall’accento marcato e consapevole della storia, che insegna all’ingenua America le dure e ineluttabili regole della politica mondiale”, ricorda il docente di SciencesPo.
Non a caso, continua, “nonostante l’improvvisa riscoperta di Wilson, egli è stato meno popolare e influente durante l’euforia neoliberista e umanitaria degli anni Ottanta e Novanta. E, non a caso, è tornato alla ribalta dopo i drammatici fiaschi delle guerre americane di questo secolo, il crollo finanziario del 2008 e la conseguente contestazione radicale della globalizzazione. Come ogni eroe di fantasia, Super-K è tagliato per le situazioni di emergenza, perché ciò che offre è sempre un crisis discourse. Qualunque cosa si possa pensare di lui, dei suoi scritti e delle sue politiche, è difficile immaginare un mito più appropriato per l’epoca e i dilemmi di oggi”.