Si dirà che indicare i pericoli per l’economia italiana non era compito del governatore della Banca d’Italia. Per la verità in altre Considerazioni finali questi confini sono stati apertamente violati, fino a paventare il rischio di un possibile stravolgimento dell’assetto istituzionale dell’intero Paese. Ma conta poco
C’è qualcosa di incompiuto nell’analisi che Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, ha appena letto negli sfarzosi saloni di Palazzo Koch. Il che nulla toglie all’accuratezza complessiva del report, redatto con lo stile che, da sempre, caratterizza gli interventi dei tecnici della Banca. Le perplessità riguardano non tanto i singoli aspetti delle sue “Considerazioni finali”, quanto le chiavi proposte per una lettura più iconica della realtà italiana. Decifrazione comunque difficile, ma non per questa meno necessaria.
Già nell’incipit del suo intervento era evidente una sorta di stupore: “nell’affrontare le conseguenze della guerra in Ucraina, così come nell’uscita dalla pandemia, l’economia italiana ha mostrato una confortante capacità di reazione. I processi di ristrutturazione aziendale degli ultimi dieci anni, ancorché incompleti e differenziati tra settori e territori, hanno reso più solido il tessuto produttivo. L’accelerazione dell’accumulazione di capitale, il miglioramento della produttività dopo un lungo periodo di ristagno, il recupero della competitività internazionale sono segnali incoraggianti che vanno rafforzati, superando quei ritardi e quelle debolezze di fondo che ancora impediscono alla nostra economia di dispiegare appieno le proprie potenzialità.”
Del resto analoghe difficoltà si erano colte nel lavoro degli altri Enti previsionali e nello stesso Governo – basti vedere il Def – costretti il più delle volte ad aggiornare in meglio i target di fine anno. Nel documento governativo, le previsioni avevano portato ad ipotizzare un tasso programmatico di sviluppo dell’1 per cento, contro un tendenziale dello 0,9 ed una precedente previsione della Nadef dello 0,6. Ancora più marcata la revisione della Commissione europea: da un tasso di crescita originariamente (inverno 2022) previsto allo 0,3 per cento si passava nel forecast di maggio all’1,2. L’Istat, a sua volta, era stata indotta a ricalcolare “l’acquisto per il 2023” dallo 0,4 (ultimo trimestre del ‘22) allo 0,8 per cento (primo trimestre del 2023). E non è detto che la revisione al rialzo, considerato il buon andamento del turismo, non debba continuare.
Introducendo il capitolo “le prospettive dell’economia italiana”, le prime parole riflettono ancora quella sorta di compiaciuta meraviglia: “a fronte degli shock di intensità inusitata degli ultimi anni, l’economia italiana ha mostrato una notevole capacità di resistenza e reazione.” Si tratta forse di un fatto contingente? Tutto dipende dall’ottica in cui ci si colloca. A nostro avviso i risultati conseguiti sono stati persistenti e progressivi. E sviluppatosi nell’arco di un intero decennio. Non si può dimenticare che nel 2010/11 il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti – il segno più evidente di una scarsa competitività internazionale – aveva raggiunto un valore pari al 3,5 per cento del Pil.
Oggi quel gap è stato completamente superato. I debiti contratti con l’estero, per giungere ad un riequilibrio della bilancia dei pagamenti, sono stati interamente rimborsati. Ed ora l’Italia è creditore netto – subito dopo Germania ed Olanda – nei confronti degli altri Paesi.
Questi indubbi successi sono stati il risultato di una “ristrutturazione del tessuto produttivo” – come osserva giustamente il Governatore – che ha riguardato soprattutto l’industria italiana ed, in misura minore, i servizi. Rimangono ovviamente quelle “debolezze” a cui il Governatore fa cenno “che ancora affliggono la nostra economia e che negli ultimi decenni si sono riflesse in un progressivo arretramento del reddito pro capite rispetto agli altri paesi avanzati”.
Tra queste, quelle più specifiche – inerenti cioè il settore delle imprese private – riguardano “la distribuzione dimensionale delle imprese” che “resta sbilanciata verso quelle piccole e piccolissime, a proprietà e gestione familiare. Il problema è accentuato nelle costruzioni e in alcuni rami dei servizi, come quelli professionali e il comparto alberghiero e dei pubblici esercizi, in cui dalla seconda metà degli anni Novanta si registrano tassi di crescita della produttività decisamente modesti, se non addirittura negativi.”
Tutto vero: per carità. Ma nell’economia del ragionamento questi rilievi hanno ancora una loro centralità o non bisogna guardare altrove? L’andamento dei conti con l’estero per un Paese tradizionalmente in deficit, dimostra i progressi realizzati. Sono avvenuti, in genere, a discapito del lavoro. Nel senso che la limitatezza dei salari del comparto privato ha dato un contributo determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi. Ma ciò è avvenuto soprattutto perché il settore privato rimane il “ventre molle” dell’economia italiana. Su cui si scaricano tutti i costi diretti di un apparato pubblico lontano anni luce da quel minimo di efficienza, che sarebbe assolutamente indispensabile.
A queste disfunzioni il Governatore fa cenno, ma in modo troppo generico. Dire che è “altrettanto necessario …. l’innalzamento della qualità della pubblica amministrazione” é del tutto insufficiente.
Da troppi anni si continua a parlare di “qualità della pubblica amministrazione” come se fossimo di fronte ad un moloc omogeneo. Ed invece no: esistono tante pubbliche amministrazioni, ciascuna della quale va pesata e, il più delle volte, riformata secondo logiche specifiche. Un conto sono le varie amministrazioni centrali, con le loro differenze; un altro le articolazioni regionali o comunali, dove il ristagno degli elementi di professionalità è paralizzante.
In una città come Roma, ad esempio, le incrostazioni della sua macchina amministrativa, assolutamente incapace di gestire le proprie risorse economiche e patrimoniali, sono un costo insopportabile non solo per i suoi abitanti. Ma per l’intera collettività nazionale. Vorremmo avere la fede di Luca Zaia, nel difendere il progetto dell’”autonomia differenziata”. Il nostro scetticismo nasce invece dal confronto diretto tra il livello di inefficienza medio che caratterizza le realtà decentrate, rispetto alle pur evidenti disfunzioni degli apparati centrali. Con il rischio di accrescere il peso di questi settori sul surplus (Paul Sweezy) prodotto dal settore privato, fino a rovesciare, come un guanto, il possibile futuro andamento dell’intera economia.
Si dirà che indicare questi pericoli non era compito del governatore della Banca d’Italia. Per la verità in altre “Considerazioni finali” questi confini sono stati apertamente violati, fino a paventare il rischio di un possibile stravolgimento dell’assetto istituzionale dell’intero Paese. Ma conta poco. L’importante è comunque tentare di colmare un’analisi che, altrimenti, rimane sospesa. Costretta a prendere atto, con un certo stupore, della resilienza dell’economia italiana, ma poi incapace di dire su quel fronte operare per evitare di cadere nuovamente in una lunga stagnazione.