Il celebre politologo e consigliere espone la sua visione del futuro della Russia, dal palco. Da un nuovo Pivot to Asia in salsa sarmatica all’utilizzo concreto delle capacità nucleari russe, Karaganov non nasconde che un nuovo scontro tra Occidente e resto del mondo (Mosca in primis) sia ormai inevitabile, se non già in atto
Curioso come in una filippica contro l’Occidente si strutturi logicamente intorno a quel concetto di ‘Scontro delle Civiltà’ preconizzato negli anni ’90 del secolo scorso proprio da un teorico occidentale, Samuel Huntington; eppure è proprio questa la chiave di lettura su cui si articolano le riflessioni proposte da Sergey Karaganov.
Direttore del Consiglio di politica estera e della difesa, Preside della Facoltà di World Economy and International Affairs del celeberrimo ateneo moscovita Higher School of Economics (HSE), consigliere fidato di personaggi del calibro di Yevgeny Primakov e Sergey Lavrov, nonché dei Presidenti della Federazione Russa Boris Eltsin e Vladimir Putin, e ideatore di una dottrina di politica estera da cui prende anche il nome. La figura di Karaganov, autorevole quanto controversa, spicca all’interno del panorama politico e ideologico della Russia post-sovietica, così come lo fanno le sue prese di posizione.
Non stupisce quindi che il suo ultimo intervento pubblicato sul sito della rivista Russia in Global Affairs abbia fatto parecchio rumore. Anche perché inizia lasciando intendere che si tratta di una linea, se non condivisa, quantomeno discussa in seno al Council on Foreign and Defense Policy russo, il think tank che organizza il cosiddetto Valdai club. Il politologo russo parte dalla guerra attualmente in corso in Ucraina, esaminando possibili conclusioni della stessa ed analizzando quali possano essere le conseguenze che ognuno di questi scenari avrebbe per la Russia nel breve e medio termine. Karaganov teme che i combattimenti sul suolo ucraino, così come il successivo periodo di pacificazione e integrazione dei territori occupati, assorbano fondamentali risorse politiche, organizzative, umane e finanziare che la Russia dovrebbe dedicare al suo obiettivo di lungo termine: riposizionare il proprio baricentro nazionale più a Est, abbandonando l’Europa e abbracciando l’Asia. Come uno dei principali esponenti della corrente dell’Eurasianismo, non stupisce che l’accademico moscovita prenda simili posizioni.
C’è un dettaglio che non può però essere trascurato: tra gli scenari suggeriti, Karaganov non include quello di un ritorno ai confini del 2014. Anche a costo di continuare a perdere uomini e mezzi per altri mesi, o addirittura anni. La Russia ha il dovere morale di bloccare il rinnovato espansionismo occidentale, che Karagonov interpreta come una reazione difensiva alle difficoltà economico-politico militari affrontate dal mondo occidentale sin dall’inizio del nuovo millennio; momento che secondo l’autore rappresenta un’inversione di tendenza dopo cinque secoli di dominio Occidentale sul resto del mondo.
Una lotta che vede un Occidente astorico e privo di valori, lobotomizzato dal globalismo capitalista, opporsi alla Global Majority, il blocco composto da quelle regioni che fino ad oggi erano state soggiogate dalla relativa superiorità occidentale, ma che adesso stanno intraprendendo un percorso di ripresa e rivalsa. Blocco che ha in Cina ed India i suoi pilastri economici, mentre quello politico-militare è ovviamente rappresentato dalla Russia.
Russia che deve usare il conflitto in Ucraina per lanciare un forte segnale all’Occidente. E l’unico modo per farlo è quello di abbassare la soglia di utilizzo di ordigni nucleari, ed arrivare al loro utilizzo se le condizioni lo richiederanno. Karaganov concepisce simbolicamente l’arma nucleare come “una terribile arma di Dio” che l’umanità è riuscita a sviluppare nel suo momento più cupo, ovvero il trentennio che comprende le due grandi guerre mondiali (entrambe causate dall’Occidente, secondo Karaganov). La bomba atomica aveva instillato nel genere umano un sano senso di auto-preservazione che aveva evitato conflitti tra potenze nucleari per 75 anni. Ma mentre la pace permaneva (e specialmente dopo la fine della Guerra Fredda), il senso di paura per l’atomica iniziava perdere efficacia sugli uomini, convinti che l’utilizzo di un’arma così terribile non si sarebbe mai più verificato. Facendo così perdere ogni senso alla deterrenza nucleare.
L’accademico russo non suggerisce un utilizzo diretto ed immediato dell’ordigno atomico, quanto piuttosto un ben definito quanto inesorabile processo di escalation che culmini con l’impiego della bomba nucleare. Un impiego che, una volta soddisfatti i requisiti alla base, non può essere evitato.
Una decisione difficile ma necessaria, come la definisce l’autore stesso. Difficile perché rappresenterebbe una enorme perdita morale e spirituale (e forse anche perché, anche se Karaganov non osa esplicarlo, la possibile retaliation occidentale rischierebbe di eliminare la Russia dalla storia). Necessaria, perché così gli occidentali (e in particolare gli europei) sarebbero costretti ad un bagno di realtà: il rifiuto americano di scatenare una terza guerra mondiale in risposta all’attacco atomico su una città di un suo ‘vassallo’ segnerebbe il punto di rottura. In poche parole, la fine della Nato.
Evento che aprirebbe le porte ad un destino che Karaganov stesso definisce “luminoso, multipolare, multiculturale, multicolore e in grado di dare ai paesi e ai popoli la possibilità di costruire il proprio futuro comune.”