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Se investitori e aziende fuggono dal Partito comunista cinese

Cina

L’aumento della pressione da parte di Pechino e il deterioramente delle relazioni con Washington stanno portando le aziende occidentali a riconsiderare il mercato cinese. Gli investitori scappano dai titoli tech, le aziende prendono misure per ridurre l’esposizione verso la Cina. È ufficialmente iniziata la fuga dal Dragone?

Sembra che, nonostante la dimensione del mercato e le potenzialità inespresse della sua economia (che rimane estremamente dinamica), la Cina stia perdendo un certo grado di attrattività agli occhi di aziende e investitori esteri. Il motivo è da rintracciare nel deterioramento delle relazioni con gli Stati Uniti e con l’Occidente in senso lato, che va di pari passo con la crescita dell’assertività cinese. I segnali si stanno moltiplicando: sono sempre più le realtà che scelgono la strada del de-risking, per ridurre l’esposizione verso il gigante asiatico ed evitare i contraccolpi che sembrano sempre più inevitabili – o addirittura lo scoppio di una guerra.

È di settimana scorsa la decisione di Sequoia Capital, uno dei fondi di venture capital più in vista di Silicon Valley, di isolare la propria divisione cinese dalle operazioni globali. Non è solo la crescita più anemica del titano cinese: come raccontato su queste colonne, ha stupito la rapidità con cui i sottoscrittori del fondo istituito l’anno scorso sono passati dalla fiducia nella stabilità delle relazioni Usa-Cina al timore di sanzioni americane o rischi reputazionali.

Dall’altra parte, come riassume l’Economist, le autorità cinesi stanno aumentando la pressione sulle realtà estere che operano nel Paese: giganti come il Mintz Group, Capvision e Bain sono stati soggetti ad arresti del personale e controlli sempre più pervasivi, al limite del tormento regolatorio, specie in settori altamente sensibili come i semiconduttori o la regione dello Xinjiang (dove sono ampiamente documentate le pratiche di violazione sistematica dei diritti umani da parte di Pechino).

Un altro sintomo del clima è la fuga dai titoli tecnologici cinesi. Gli investitori d’oltremare stanno scaricando azioni, un tempo molto profittevoli, dei gruppi come Tencent, Alibaba – che ha perso 387 miliardi di dollari in capitalizzazione di mercato dal 2020 ad oggi – e Bilibili – crollata da 54 miliardi di dollari nel 2021 a 6,5 nel 2023. S&P Capital IQ registra che le prime dieci big tech cinesi hanno perso oltre 300 miliardi dall’inizio della pandemia, mentre le equivalenti statunitensi hanno guadagnato quasi 5 mila miliardi di dollari.

A scappare dalla Cina sono anche grandi nomi apprezzati per i loro nervi d’acciaio, come Warren Buffett (che nell’ultimo anno ha venduto metà delle proprie azioni nell’automaker dei record, BYD) e realtà più istituzionali, come diversi fondi pensioni. Anche gli investitori più scettici, che l’anno scorso hanno criticato la decisione di JPMorgan Chase di classificare le azioni tech cinesi come “uninvestable” (inavvicinabili), iniziano a ricredersi. Non manca la schiera di gruppi bancari, tra cui la stessa JPMorgan, che promettono fedeltà al mercato cinese. Ma nel mentre c’è chi pensa alle contromisure.

È il caso di Apple, azienda storicamente legata alla Cina per via della produzione dei suoi prodotti di punta, e Foxconn, la società taiwanese che funge da suo partner produttivo. Sebbene il ceo Tim Cook segnali di non essere intenzionato a sganciarsi da Pechino, entrambe le realtà stanno lentamente spostando i processi di produzione in altri Paesi asiatici. Tra tutti, vincono Vietnam e India, che si propongono come alternative al Dragone.

Questo trend è solo la punta dell’iceberg: il Financial Times registra una crescita meteorica della domanda per prodotti di investimento asiatici che escludono la Cina, come fondi che investono in mercati favorevoli agli Usa e garantiscono un “chiaro isolamento” dal rischio geopolitico legato a Pechino. La divergenza è evidente guardando alla performance dell’indice MSCI Emerging Markets Asia, che quest’anno ha reso l’1,3%, rispetto all’8,6% dell’indice MSCI EM Asia ex-China. Nella regione brillano Corea del Sud e Taiwan, in crescita rispettivamente del 20 e del 30%.

Insomma, sembra che il mercato stia mettendo in pratica la linea di de-risking adottata dai Paesi occidentali e i partner globali al G-7 di Hiroshima. Settimana prossima la Commissione europea dovrebbe presentare la sua nuova dottrina di sicurezza economica, con annesse una serie di misure e strumenti istituzionali e finanziari, per ridurre l’esposizione ai rischi economici esterni. Rimangono le resistenze dei Paesi più legati al gigante asiatico, come la Germania. Ma il processo di allontanamento dall’autocrazia cinese, catalizzato dall’aggressione russa contro l’Ucraina e il ricatto del gas contro l’Europa, sembra sempre più inevitabile.



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