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La crescita cinese non convince, e la prima vittima è lo yuan

In questi giorni la moneta nazionale cinese è scivolata ai minimi da sei mesi, deprezzandosi sul biglietto verde. Colpa della scarsa fiducia degli investitori nella capacità di Pechino di lasciarsi alle spalle tre anni di schizofrenia finanziaria e politica

 

L’azzardo di scalzare il dollaro dal trono del sistema monetario globale potrebbe rimanere, almeno per ora, solo un sogno per la Cina. Sono mesi che Pechino tenta in tutte le maniere di rafforzare lo yuan, nella speranza di eleggere la moneta nazionale cinese a nuovo baricentro monetario. Lo dimostrano tutta una serie di accordi con Paesi amici, finalizzati a garantire lo scambio di beni e servizi in valuta cinese: Russia, Brasile, Iran e persino la non sempre amichevole India.

Dal Paese verde-oro, ora guidato nuovamente dal socialista Lula, è arrivato nelle settimane scorse un accorato appello affinché i Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) scambino in yuan anziché in dollari. Lo stesso Lula, incontrando Xi Jinping, si è detto deciso ad avviare transazioni commerciali e finanziarie tra Brasile e Cina in moneta cinese anziché in real. Tutto pur di disarcionare il biglietto verde.

I mercati raccontano però un altro scenario. Lo yuan cinese è scivolato in questi giorni ai minimi di sei mesi rispetto al dollaro e, secondo gli analisti, potrebbe indebolirsi ulteriormente, poiché gli investitori sono preoccupati per la ripresa accidentata della seconda economia mondiale. Eccolo il punto. I mercati non si fidano più della Cina e della sua capacità di lasciarsi alle spalle, per sempre, una stagione lunga tre anni fatta di lockdown, fallimenti (si veda alla voce immobiliare), ingerenze del partito, schizofrenie da Covid e, soprattutto, un enorme debito sovrano e corporate.

La prova, l’ultima in ordine temporale, è nel clamoroso caso di Wuhan, la città simbolo della pandemia. La cui autorità finanziaria ha invitato pubblicamente centinaia di aziende a ripagare i debiti nei confronti del governo e lo ha fatto in modo pubblico e clamoroso. L’Ufficio municipale delle finanze di Wuhan ha pubblicato venerdì scorso un elenco di 259 entità, tra cui alcune imprese statali, con il dettaglio dei loro debiti in sospeso a dicembre 2018. In questo modo ha reso pubblica una situazione poco conosciuta all’estero: anche in Cina chi può se ne infischia dei debiti. Secondo l’elenco, pubblicato dallo Yangtze River Daily, i debiti ammontavano a circa 300 milioni di yuan (42,4 milioni di dollari) e variavano da 10.000 yuan a oltre 23 milioni di yuan.

Morale, il Dragone non tira come dovrebbe (a fine 2023 il governo ha fissato un target di crescita del Pil che vale +5%). E nel mondo della finanza globale, una valuta troppo dipendente dai capricci di un governo non è certo una buona sostituta per il dollaro. “I dati economici deludenti, l’aumento del differenziale di rendimento con gli Stati Uniti, l’imminente pagamento dei dividendi societari e i continui deflussi di capitale attraverso la vendita di azioni e obbligazioni da parte di stranieri hanno trascinato lo yuan ai livelli visti l’ultima volta a novembre”, ha scritto Reuters.

La moneta cinese si è deprezzata di oltre il 5% rispetto al dollaro dai massimi raggiunti a gennaio, quando i mercati globali hanno accolto la riapertura delle frontiere cinesi, ed è una delle valute asiatiche con la peggiore performance di quest’anno. “Lo yuan soffre perché la storia della riapertura della Cina è meno attraente di prima e non ci sono segnali di ulteriori stimoli”, ha dichiarato Gary Ng, economista senior per l’Asia Pacifico di Natixis.


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