Skip to main content

Così una base cubana entra nel disgelo Usa-Cina

Tra Washington e Pechino è in corso una fase fluida. Ci sono tentativi di disgelo effettivi, ma nessuno dei due vuole far passare questi come debolezza. L’analisi di Emanuele Rossi

La vicenda dell’accordo per piazzare a Cuba una base SigInt della Cina ha fatto tornare indietro la mente al 1962, la crisi dei missili con l’Unione Sovietica, il rischio di un conflitto fra le allora due super-potenze mondiali. Ci sono similitudini solo parziali, perché a differenza di quella con Mosca, questa con Pechino non è una guerra fredda per Washington. Tanto che c’è ancora una profonda interconnessione tra le due economie, fattore determinante. E infatti non si parla nemmeno più di “de-coupling” — troppo drastico, ma soprattutto utopico — ma ormai anche a DC si è accettato il pragmatismo tedesco espresso da Ursula von der Leyen col suo “de-risking”.

Non è un caso allora se da chi nell’amministrazione Biden ha sdoganato la riduzione del rischio piuttosto che il totale disaccoppiamento, ossia il Consiglio di Sicurezza nazionale guidato da Jake Sullivan, esca anche una linea di risposta alla questione della base cubana, di cui mezzo mondo sta parlando dopo lo scoop del Wall Street Journal uscito giovedì 8 giugno.

Il coordinatore delle comunicazioni strategiche del Consiglio, l’ammiraglio John Kirby (ufficiale esperto e misurato nella gestione delle complessità), ha detto in diretta sulla Msnbc che le informazioni diffuse dal Wsj sono “not accurate”, usando la formula tipica che i funzionari americani adoperano quando non vogliono smentire ma minimizzare una notizia. Lo stesso ha detto il portavoce del Pentagono: “Posso dirvi, sulla base delle informazioni che abbiamo, che non sono accurate, che non siamo a conoscenza di [un piano tra] Cina e Cuba per sviluppare un nuovo tipo di stazione di spionaggio”. (“Un nuovo tipo” rispetto a quale?).

È una fase delicata in cui gli Stati Uniti stanno lavorando per “tenere aperte le linee di comunicazione”, come dice Kirby (e dunque niente guerra fredda per come la conoscevamo, nonostante romanticismi e nostalgie cubane). Sul brevissimo termine, c’è in ballo una visita del segretario di Stato Antony Blinken a Pechino entro la fine del mese. Servirebbe a recuperare ulteriore terreno in quelle relazioni, anche perché era stata proprio una visita di Blinken, annullata all’ultimo momento, a farle precipitare. Il viaggio del capo della diplomazia americana in Cina era stato fatto saltare a febbraio, quando i giornali americani pubblicarono la notizia di un pallone spia cinese che stava osservando alcune infrastrutture del Pentagono. La vicenda prese le prime pagine dei media del mondo anche quella volta, e Joe Biden per non sembrare debole ordinò l’abbattimento dell’aerostato. Pechino criticò la reazione eccessiva americana, Blinken fece saltare il viaggio perché non c’erano le condizioni.

Per settimane, sedimentata la vicenda del pallone, gli Usa hanno cercato di ri-organizzare la visita, ma non avevano ricevuto collaborazione da Pechino. Ora che qualcosa si è mosso, in mezzo ad altri vari contatti diplomatici, gli americani vogliono evitare che tutto salti nuovamente, anche se la notizia del Wsj aveva tutte le caratteristiche per essere incendiaria. Il mantra di Biden adesso è “disgelo”, e senza comunicazione il disgelo non esiste. E mentre la Cina rifiuta il dialogo military-to-military e sembra accettare solo quello commerciale, il viaggio di Blinken è visto come un sostanziale passo avanti per maggiori aperture, anche su una dimensione politico-strategica.

È un momento molto fluido (per dirla con termini moderni). Ci sono indizi che fanno pensare a una tendenza al peggioramento delle relazioni Usa-Cina, altri che invece potrebbero indicare una stabilizzazione (che in sostanza sarebbe positiva anche se non è un miglioramento). C’è una crescente aggressività delle forze armate cinesi riguardo agli Stati Uniti: il rifiuto di un incontro tra il ministro della Difesa cinese e il capo del Pentagono ne è una dimostrazione insieme alle manovre aeree e navali sempre più minacciose e provocanti da parte dei mezzi di Pechino nell’Indo Pacifico.

Ma ci sono anche gli incontri avuti dai ministri del Commercio, il viaggio in Cina del direttore della Cia, quello di altri funzionari di rango leggermente minore, e la possibile visita di Blinken che potrebbe portarsi dietro anche il riavvio delle visite cinesi delle delegazioni di congressisti (ora sospese di fatto). Su queste colonne si è anche ipotizzato un viaggio di Biden in Cina, invitato da Xi Jinping prima degli incontri istituzionali programmati in ambienti terzi come il G20. “Al momento giusto”, ha detto Kirby a proposito di una visita cinese del presidente, che evidentemente è un pensiero che serpeggia anche a Washington.

Entrambe le parti sembrano sondare se sia possibile costruire una relazione più funzionale e prevedibile, in cui entrambe accettino la natura intrinsecamente competitiva delle relazioni e lavorino per gestirla. E a quanto pare nessuna delle due parti sembra aver concluso che la relazione sia irrimediabilmente persa. Però ci sono anche eventi imprevedibili (come la notizia della base cubana, o le schermaglie nelle acque dell’Indo Pacifico) destinati ad alterare le relazioni, e sarà dalle reazioni che il mood diventerà più comprensibile.

Quello che è chiaro è che, come nel caso delle attività militari cinesi, nessuno dei due Paesi è disposto a cedere eccessivamente. Nessuno vuol far pensare che la disponibilità al dialogo sia una debolezza. Washington per esempio nell’ultimo mese ha accelerato il pacchetto da 500 milioni di armi in armi per Taiwan; ha sanzionato sette aziende cinesi per contrabbando di Fentanyl; ha sanzionato altre cinque entità cinesi coinvolte nel programma missilistico iraniano; ha messo nero su bianco, al G7, che la Cina opera “coercizione economica”. “Credo che un’intesa competizione necessità di un’intensa diplomazia. Abbiamo nessuna di fare di più su questo, non certo meno”, spiegava Sullivan due anni fa.

Nella sostanza, gli Stati Uniti sembrano attualmente fiduciosi nella propria capacità di competere a lungo termine — e vincere la competizione — con la Cina. Per questo vedono questo momento adatto per “engage China from a position of strength”, per usare le parole di Blinken, sempre di due anni fa. Washington sembra consapevole che per vincere a lungo termine occorra fare tutto il possibile per “evitare una catastrofe” nel breve termine. “Competition without catastrophe” è il titolo di un saggio di Foreign Affairs co-firmato da Jake Sullivan nel 2019.


×

Iscriviti alla newsletter