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La difficile eredità internazionale di Berlusconi secondo l’amb. Stefanini

Ha dimostrato, come pochi leader italiani, la capacità di parlare da pari a pari ad altri leader e di guadagnarsi la loro attenzione e rispetto. L’ha però spesso sprecata per indulgenza all’intrattenimento, dettata anche da irrefrenabile voglia di “piacere” ai suoi interlocutori. Il commento dell’ambasciatore Stefano Stefanini, già rappresentante dell’Italia alla Nato e consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica

“Fine di un’era…..forse no, ma occupa un posto significativo nella storia d’Italia”. Me lo ha scritto un amico americano che conosce abbastanza bene l’Italia, abbastanza da viverci buona parte del suo tempo, abbastanza da avvertirne direttamente sulla pelle le sotterranee spigolosità. Nella marea di commenti su Silvio Berlusconi, italiani e stranieri, mi è parso il più calzante per raffigurare il passaggio della cometa Berlusconi nei nostri cieli degli ultimi trent’anni. Non sono pochi anche sottraendosi all’iperbole – non la sola – “dell’era”. Che cosa rappresenta questo “posto significativo”? Quale è stato il peso internazionale del leader italiano – leader a tratti, ma sicuramente leader? Che eredità lascia?

Le risposte a queste domande non sono facili per tre motivi. Il primo, fin troppo evidente, è la nostra divisione nei due campi pro e contro Berlusconi, malgrado qualche apprezzabile manifestazione di rispetto pur nel dissenso, per esempio di Romano Prodi. Il tifo schiaccia la sportività anche dopo l’uscita dal campo. Per afferrare l’effettivo impatto internazionale del presidente del Consiglio italiano più a lungo in carica, tuttavia, bisognerebbe guardare a quello che se ne dice fuori Italia, altrimenti è come darsi il voto da soli. E qui nasce la seconda difficoltà: la macchiettistica berlusconiana.

Lasciamo perdere i messaggi di cordoglio ufficiali. Tributi dovuti quanto, necessariamente, di maniera. Il calore degli autocrati mette a disagio ma riflette anche la piega finale della parabola berlusconiana, di un ex-leader che disturbava ma non decideva, vedi Russia e Ucraina. Dimentichi del Berlusconi alleato di George W. Bush e Tony Blair in Iraq o efficace padrone di casa del G8 a Genova e all’Aquila e del Nato-Russia a Pratica di Mare o delle relazioni personali spesso produttive con altri leader, i media internazionali si domandano quanto Berlusconi abbia fatto da modello per Donald Trump e Jair Bolsonaro. Soprattutto, lo presentano attraverso una carrellata di macchiette e aneddoti che stuzzicano la fantasia. Piantati e coltivati da Berlusconi stesso.

Ne esce la figura di un divertente intrattenitore dei palcoscenici europei e internazionali come era stato, in gioventù, di quelli delle navi da crociera.

Spariscono però dallo schermo le decisioni di politica estera, talvolta non facili e controverse in Italia – valga per tutte la partecipazione alla stabilizzazione in Iraq che ci costò i caduti di Nassirya. Berlusconi fu, specie nelle due presidenze consecutive dal 2001 al 2006, di fatto una presidenza di legislatura, un “player” in campo europeo e occidentale e nei rapporti con la Russia. A Washington e a Mosca trovava porte aperte come, prima di lui, nessun altro leader italiano; di conseguenza, si aprivano anche quelle europee, malgrado qualche ruggine. Per ritrovare un leader di equivalente peso internazionale l’Italia dovrà aspettare Mario Draghi. Nel riconoscerlo, tuttavia, ci si scontra con la terza difficoltà: la sopravvalutazione da parte di Berlusconi stesso. Egli contava sì, ma non quanto credeva di contare. Era un peso medio che si credeva nel ring dei pesi massimi. Questo lo conduceva ad affermazioni, come l’attribuirsi il merito di aver posto fine alla guerra fredda grazie all’accordo Nato-Russia di Pratica di Mare, che finivano con lo screditare quanto effettivamente realizzava.

Chi scrive ne è stato testimone in qualche occasione. “Non mi hanno nemmeno ringraziato”, mi disse, a Strasburgo, all’uscita del vertice Nato del 2009 che aveva appena faticosamente nominato Anders Fogh Rasmussen segretario generale dell’Alleanza, contro l’opposizione di Ankara. Parlava con una punta di amarezza. Si era speso per superare lo scoglio turco. Gli era valso il gesto spazientito di Angela Merkel (“Silvio basta col telefonino”) che fece il giro dei media internazionali, perché il presidente del Consiglio che faceva attendere tutti i leader per la foto di gruppo. Ma Berlusconi stava parlando con Recep Tayyip Erdogan per convincerlo a dare la luce verde a Rasmussen. Cosa che poi il leader turco fece. Alla fine, tuttavia, non furono le parole di Berlusconi a smuoverlo. Fu un negoziato senza peli sullo stomaco con Barack Obama a chiudere la partita. Me lo assicurò, più di una volta, il segretario generale uscente, Jaap de Hoop Scheffer, che aveva partecipato al mercanteggiamento, aggiungendo però “e Berlusconi ha aiutato molto”.

Di quel vertice di Strasburgo, nell’immaginario creato dai social media è rimasta l’immagine di Berlusconi col telefonino che fa aspettare Merkel e una trentina di altri leader. A Berlusconi rimase la convinzione di essere stato l’artefice della nomina di Rasmussen a segretario generale. La sfuggente verità sta evidentemente nel mezzo. E la figura internazionale di Silvio Berlusconi si colloca su quest’altalena.

All’Italia, Silvio Berlusconi lascia pertanto un’eredità internazionale agro-dolce. Ha dimostrato, come pochi leader italiani, la capacità di parlare da pari a pari ad altri leader e di guadagnarsi la loro attenzione e rispetto. L’ha però spesso sprecata per indulgenza all’intrattenimento, dettata anche da irrefrenabile voglia di “piacere” ai suoi interlocutori. Ci è riuscito: una giornalista russa mi ha appena scritto: adoravo Berlusconi, c’era sempre qualcosa da raccontare su di lui. Ma che prezzo?

Il problema della collezione di aneddoti propinato dai media internazionali è…che sono tutti veri. Di questa parte dell’eredità berlusconiana l’Italia deve liberarsi. La nostra immagine internazionale deve scrollarsi di dosso le sue macchiette, ma conservare la sua capacità di farsi ascoltare. Tocca ora a Giorgia Meloni, e a chi verrà dopo di lei, trovare questo equilibrio.

Nel 2006 Berlusconi parlò al Congresso americano. I leader stranieri ammessi a farlo si contano col contagocce. Dopo il discorso ci disse “spero di aver fatto qualcosa per il bene dell’Italia”. Lo aveva fatto. Aveva toccato tutti i tasti giusti. Aveva capito come parlare agli americani. Non capì però mai che le barzellette, che amava, sono intraducibili. Sicuramente Meloni non ripeterà l’errore.



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