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Gli scenari internazionali e il ruolo degli Stati centrali. L’analisi di Stanislao Chimenti

Le sfide geopolitiche dei rapporti tra Stati e potenze mondiali e le scelte politiche di ogni Paese, anche su dinamiche riguardanti l’economia, il mercato e lo sviluppo. Spunti e riflessioni di Stanislao Chimenti, partner dello studio internazionale Delfino Willkie Farr&Gallagher, sul discorso di Mario Draghi tenuto al Mit

Il recente discorso del presidente Mario Draghi presso il Mit in occasione del conferimento in suo favore del Premio Miriam Pozen è particolarmente denso di contenuti e offre numerosi spunti di riflessione di vario e diverso ordine che vale la pena riprendere.

In estrema sintesi, la sua analisi investe profili idealmente distinti ma tutti, a ben vedere, profondamente interconnessi:
i) un profilo di natura geopolitica, riguardante il ruolo complessivo dei rapporti tra Stati e potenze mondiali;
ii) un profilo di natura politica, riguardante il complesso assetto di valori dei vari soggetti che interagiscono fra loro (essenzialmente il confronto tra le scelte del libero mercato e della democrazia nei confronti di soggetti che non aderiscono, ovvero aderiscono solo in parte a tale visione);
iii) un profilo di natura più strettamente economica, riguardante le dinamiche e i meccanismi che governano ai giorni nostri gli aggregati macroeconomici e i loro riflessi in termini di sviluppo, mercato della produzione, del lavoro, del credito e andamento dei prezzi.

Il primo profilo è quello che più di altri risente inevitabilmente del conflitto in Ucraina.

Lo stesso Mario Draghi ha ricordato come, sfortunatamente, guerre e instabilità di vario ordine non siano certo una novità nel panorama mondiale. Tuttavia, il dato di enorme rilievo è rappresentato dal ritorno dello spettro della guerra nel cuore dell’Europa, oltretutto con modalità, ragioni palesi e motivi occulti che sgomentano anzitutto per anacronismo, potendosi identificare un coacervo di spinte che attingono sia al passato più lontano della Russia zarista e imperialista, sia al passato più recente dell’Urss della guerra fredda e dei rapporti con la Nato.

In questo caso, è inevitabile che allo shock contingente – che le forze economiche stanno dimostrando di saper assorbire forse meglio rispetto alle pessimistiche previsioni della prima ora -, faccia seguito un’influenza a livello più profondo e di maggiore durata.

In questo caso la riflessione di natura giuridica e che ci riguarda più da vicino deve prendere le mosse da un rilievo che, dagli Europei, non sempre è stato messo in risalto e che invece il Presidente Draghi ha evidenziato con nettezza ed è oggetto di maggiori attenzioni dall’altra parte dell’Atlantico: piaccia o non piaccia, l’Unione europea non è stata né pensata, né costruita per “trasformare il peso economico in potere militare e diplomatico”.

Sennonché l’improvvisa crisi ucraina pone violentemente al centro della scena proprio queste tematiche nel senso che, nella visione di Draghi, un’eventuale vittoria della Russia non può essere presa in considerazione perché sarebbe semplicemente esiziale per la stessa sopravvivenza della Ue e implicherebbe una totale sconfitta di tutto ciò che dal 1945 a oggi si è con fatica creato.

Accantonando in questa sede le questioni più direttamente militari, può dirsi che la guerra in Ucraina ha confermato una problematica già emersa improvvisamente e con grande urgenza in periodo di pandemia. Il riferimento è al rilievo peculiare e strategico concernente determinati prodotti e servizi considerati primari e infungibili soprattutto in determinati scenari di crisi: farmaci, armi, energia e risorse, comparto alimentare e tutto il relativo indotto, anche logistico, si sono dimostrati cruciali. I governi di tutto il mondo si sono trovati e si trovano oggi a fronteggiare con drammatica urgenza il problema di un approvvigionamento adeguato, tempestivo ed economicamente sostenibile di tali risorse.

Di qui è emerso il dato che vale la pena riprendere: le forze del libero mercato hanno inizialmente dettato legge anche agli Stati. Ad esempio, in tema di vaccini è stato necessario derogare in modo vistoso al diritto comune in molti comparti perché le ragioni della necessità e dell’urgenza lo rendevano inevitabile. In Italia il dibattito su produzione e fornitura di armi a paesi terzi, ancorché alleati, è tema che ancora oggi crea tensioni e apre dibattitti addirittura inerenti alla legittimità costituzionale.

Molto presto, tuttavia, è emersa un’istanza “dal basso” che, soprattutto in ambiente europeo, è stata avvertita in modo particolarmente intensa, in virtù di una tradizionalmente più accentuata sensibilità in ambiente europeo a tematiche di natura sociale. Ne è scaturita una reazione, ancorché non immediata e dunque, per così dire, almeno parzialmente anelastica, volta a recuperare un ruolo più autorevole di stati e governi in contrasto con forze di mercato e di soggetti privati che, per situazioni contingenti, si sono trovati come detto a fornire beni e servizi strategici e infungibili. Il fine ultimo era quello di tutelare gli strati più debole della popolazione, le fasce sociali più esposte per varie ragioni alle conseguenze nefaste della pandemia ieri, e della guerra oggi.

Non è evidentemente possibile in questa sede diffondersi su tutte le profonde implicazioni di simile situazione.
Tuttavia, occorre mettere in evidenza come recepire tali istanze significhi, in concreto, approdare a un vero e proprio cambio di paradigma.

Tra i vari pilastri della Ue un ruolo primario è stato sempre rivestito dal diritto della concorrenza: parità di trattamento, divieto di interventi statali distorsivi e rispetto del libero mercato hanno sovente operato come veri e propri dogmi, ancor prima che come norme e principi giuridici (evidentemente, come tali, certamente cogenti).

Non si tratta, ovviamente, di ripudiare tale modello; si tratta però, più pragmaticamente, di prendere atto che le realtà pubbliche, se non vogliono abdicare del tutto alla propria funzione sociale, debbono ripensare il proprio ruolo e non limitarsi a svolgere una funzione (comunque rilevante) di meri spettatori e garanti formali delle regole.

In questo contesto, non può cioè non prendersi atto che determinati settori debbano essere oggetto di un’attività di protezione che però non deve certamente essere intesa come concessione indebita e ingiustificabile di indifferenziati favori pubblici a soggetti privati. Piuttosto, occorre comprendere che lo Stato, se, ad esempio, “protegge” il settore delle telecomunicazioni e della siderurgia, protegge se stesso e, in ultima istanza, i propri cittadini. In uno scenario di guerra – purtroppo oggi già presente – è semplicemente inimmaginabile ipotizzare che, ad esempio, il sistema di copertura dello spazio aereo sia affidato a una società integralmente controllata da quella che con terminologia arcaica, ma efficace, potremmo definire una “potenza nemica”.

Senza poi ipotizzare scenari di conflitto, l’esperienza della pandemia ha insegnato come, al di là di fenomeni di spontanea “solidarietà” (invero inevitabilmente sporadici), i soggetti che erano meglio attrezzati a fronteggiare la crisi hanno preferito, almeno inizialmente, conservare le proprie merci e i propri prodotti in una visione “autarchica”, rifiutandosi in linea di principio di fornire beni e servizi a paesi terzi in base a logiche di puro mercato (si pensi al tema delle mascherine in periodo di Covid-19).

Ovviamente questi principi debbono essere declinati non solo nella fisiologia dei rapporti e in relazione a operatori in bonis, ma anche e anzi soprattutto in scenari di crisi.

Difatti, le crisi aziendali possono innescarsi per ragioni e cause potenzialmente infinite e anche non necessariamente connesse all’andamento specifico della singola impresa. Ma, per le ragioni che si è detto, in certi scenari non è pensabile che lo stato si disinteressi del destino delle singole imprese del settore strategico in nome di dogmi e principi di non intervento, e si ponga per così dire alla finestra in attesa che le forze del libero mercato agiscano e sostituiscano l’impresa decotta con una efficiente. In determinati settori la tempistica sarebbe semplicemente incompatibile con la necessità e l’urgenza di una guerra, di una nuova pandemia, di una crisi energetica.

Ecco perché vale la pena affinare la riflessione giuridica sullo statuto disciplinare dei meccanismi di superamento e comunque gestione della crisi ponendo attenzione particolare sia all’oggetto dell’impresa, cioè al comparto in cui opera, sia alle circostanze contingenti. Ovviamente, avendo anche a mente che, dato proprio il particolare settore di business di cui parliamo, si tratterà soprattutto di grandi o grandissime imprese e, dunque, andrà ri-considerato il sistema della disciplina delle amministrazioni straordinarie, fornendo maggiori poteri agli organi di matrice pubblicistica che sono deputati al recupero dell’equilibrio economico – finanziario ma che siano anche e soprattutto di esercitare una funzione di raccordo con le più ampie visioni di politica industriale e magari di geopolitica di cui si è fatto cenno.

Un elemento di ulteriore complessità è rappresentato dal rilievo che, come detto, si tratta di profili di competenza e attribuzione certamente della Ue e solo successivamente dei singoli Stati in virtù del ben noto principio di primazia del diritto europeo.

La sfida, dunque, si pone soprattutto sotto il profilo del coordinamento dei rapporti fra ordinamento della Ue e singoli ordinamenti nazionali.


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