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Tra Iran e Usa è in arrivo un mini-accordo sul nucleare

Un mini-accordo, informale e non scritto, tra Iran e Stati Uniti potrebbe essere in arrivo. Molto degli attori in campo hanno interesse a trovare una forma di congelamento della situazione, altri potrebbero preferire destabilizzazioni

Gli Stati Uniti avrebbero raggiunto un mini-accordo con l’Iran per limitare le attività nucleari della Repubblica islamica. L’intesa è stata negoziata segretamente per mesi e si è resa necessaria, secondo fonti europee, perché gli americani temono che dopo i dati di gennaio — quando gli ispettori dell’Osservatorio atomico delle Nazioni Unite trovarono nell’impianto di Fordow materiale arricchito allo 83,7% — Teheran sia veramente arrivato a un passo dalla produzione di tipo militare, fissata a una percentuale pari a 90.

Negoziati a un passo dalla bomba

Quella è stata l’ultima prova di quanto sia avanzato il programma nucleare iraniano da quando gli Stati Uniti del presidente Donald Trump si sono ritirati unilateralmente dall’accordo che Teheran aveva firmato con le potenze mondiali nel 2015, noto come Jcpoa. Era il 2018, nei cinque anni successivi la Repubblica islamica si è impegnata in un pericoloso gioco di prestigio con Washington e oggi l’Iran è sulla soglia di diventare uno Stato nucleare. Era sulla base di quel dato che il generale Mark Milley, capo delle Forze armate statunitensi, arrivò a dichiarare in un’audizione al Senato, a marzo, che l’Iran “potrebbe produrre abbastanza materiale fissile per un’arma nucleare in circa 10-15 giorni e ci vorrebbero solo alcuni mesi per produrre un’arma nucleare vera e propria”.

Negli ultimi mesi, i funzionari europei e statunitensi hanno ripreso silenziosamente a discutere su come affrontare la crisi. Il cosiddetto E3 — Francia, Germania e Regno Unito — ha per esempio incontrato Ali Bagheri Kani, negoziatore nucleare dell’Iran, a Oslo a marzo. Separatamente, Bagheri Kani ha dichiarato di aver incontrato funzionari dell’E3 ad Abu Dhabi anche questo mese. Muscat ha invece ospitato altri vertici importanti, non ultimo una visita del ministro degli Esteri israeliano in questi giorni. Come noto, l’Oman è in questo momento il Paese mediatore chiave tra Stati Uniti e Iran. Inoltre Rob Malley, inviato degli Stati Uniti per l’Iran, ha incontrato più volte negli ultimi mesi l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite, Amir Saeid Iravani.

I colloqui tra Washington e Teheran sono anche stati spinti dall’acuirsi delle tensioni nel primo trimestre dell’anno. Un contractor americano è stato ucciso da un drone di fabbricazione iraniana in Siria e gli Stati Uniti hanno risposto con un attacco aereo su una struttura utilizzata dalle Quds Force, la componente d’élite del Sepâh: nel bombardamento sono stati uccisi combattenti affiliati all’Iran. Dopo questi scambi armati, gli Stati Uniti hanno ricevuto indicazioni da parte dell’Iran di essere interessati a discutere per allentare le tensioni, e gli iraniani pare siano sembrati più seri.

Le condizioni

Sono seguiti, a maggio, colloqui indiretti tra Stati Uniti e Iran in Oman, durante i quali Teheran ha indicato di essere disposta a compiere concessioni sul dossier nucleare che, almeno nell’impegno (che per quanto noto l’accordo sarà informale e non scritto), rappresenterebbero ciò che Washington sta cercando da tempo. I funzionari statunitensi si sono contemporaneamente concentrati anche su un potenziale scambio di prigionieri con l’Iran, che detiene almeno tre cittadini americani con doppia cittadinanza.

Rilascio dei prigionieri, stop agli attacchi contro gli americani (da parte delle milizie controllate dal Sepâh nella regione) e arricchimento non oltre il 60% sarebbero gli estremi dell’intesa che secondo gli iraniani è “imminente”. Washington si impegnerebbe a evitare nuove misure sanzionatorie e alleggerirne alcune, tra cui lo sblocco di fondi iraniani in dollari. In quello che potrebbe essere un segno di un accordo in via di sviluppo, la scorsa settimana gli Stati Uniti hanno consentito una deroga che permette all’Iraq di pagare 2,76 miliardi di dollari di debiti energetici all’Iran. Secondo il dipartimento di Stato, il denaro sarebbe limitato all’uso da parte di fornitori terzi approvati dagli Stati Uniti per cibo e medicine per i cittadini iraniani. I funzionari iraniani stanno anche cercando di rivendicare un valore stimato di 7 miliardi di dollari di pagamenti per l’acquisto di petrolio detenuti in Corea del Sud, che hanno collegato al rilascio di prigionieri americani (anche in quel caso i soldi dovrebbero avere vie di spesa vincolate).

Washington dice che le voci di un mini-accordo sono “misleading” (letteralmente ingannevoli ma qui sta per “mal interpretate”) e rivendica che la priorità è sempre evitare che l’Iran ottenga la bomba atomica. Però gli Usa sono consapevoli che il clima generale attorno all’Iran è cambiato, e dopo essersi impegnati invano sul programma nucleare — sia attraverso le campagne aggressive che hanno prodotto l’uscita dal Jcpoa e la reintroduzione delle sanzioni, che con la diplomazia per ricomporre i cocci della vecchia intesa — vorrebbero capitalizzare il più possibile. Per questo l’inclusione nel mini-accordo della vicenda dei prigionieri. D’altronde quasi nessuno ritiene che sia ancora possibile rilanciare il Jcpoa, in base al quale l’Iran ha accettato di imporre limiti severi alla sua attività nucleare e un rigoroso monitoraggio dell’agenzia atomica internazionale in cambio di un alleggerimento delle sanzioni.

Il contesto e Israele 

Per altro, a proposito di quel clima: Teheran è un Paese in corso di riqualificazione. L’accordo per la normalizzazione dei rapporti con Riad, su cui Pechino ha messo il cappello (nonostante fosse frutto finale di lunghe e complesse mediazioni diverse), apre a una nuova fase. Gli iraniani e i sauditi si parlano, e così fanno gli altri Stati sunniti del Golfo (per primo gli Emirati Arabi Uniti). Gli iraniani sono meno isolati, la Russia li ha elevati a partner per le forniture militari in Ucraina, la Cina li tratta da interlocutori (all’interno di un piano per aumentare la prese nella regione mediorientale e centro-asiatica).

Nella regione resta un grande problema: Israele. Gerusalemme non è arretrato di un centimetro, e pianifica da tempo opzioni militari contro l’Iran. Per Washington sarebbe altamente problematico un attacco israeliano contro gli impianti iraniani. Il grande rischio, al di là dello scombussolamento agli equilibri regionali in costruzione, sarebbe anche di esserne coinvolta. Per tutte queste ragioni, la migliore speranza attualmente è un accordo provvisorio per alleggerire alcune sanzioni in cambio di una riduzione di alcune attività nucleari da parte dell’Iran, senza però richiedere l’approvazione del Congresso (che è profondamente ostile alla Repubblica islamica perché è l’apparato con visioni ideologiche della democrazia statunitense), o di altre misure de-escalatorie.

Un quadro del genere si inserirebbe nella fase pragmatica della regione, dove tutti rinunciano a qualcosa — e gli Usa dimostrerebbero disponibilità in questo. Aspetto che potrebbe essere accettato da molto alleati (come i Paesi del Golfo) e potrebbe essere un segnale verso i grandi attori (come Cina e Russia, ma anche Ue). Israele sarebbe il più scontento, ma anche considerata la fase tesa delle relazioni con Washington, il governo Netanyahu in generale sarebbe scoraggiato dal prendere iniziative aggressive nel breve termine (poi in futuro si aggiornerei la pratica).

Teheran ha poco spazio?

Considerato lo stato di avanzamento del programma nucleare iraniano, Teheran ha pochissimo spazio di azione senza far scattare le linee rosse di Stati Uniti e Israele. Misure che certamente si muoverebbero in forma congiunta davanti a evoluzioni incontrollabili. Teheran ha stressato il dossier a sufficienza, ha dimostrato che la resistenza storica, la capacità di resilienza e quella che la Guida suprema Ali Khamenei chiama “flessibilità eroica” hanno portato frutti. Un mini-accordo darebbe spazio alla teocrazia per rivendicare un successo: sia pratico (con l’alleggerimento di qualche sanzione, certamente non quelle connesse all’industria della Difesa, ma è qualcosa), sia ideologica (e incassare qualche consenso da una ripresa economica collegata alla fase de-sanzionatoria). La Guida ha già parlato, dimostrando apertura (sebbene infarcita di retorica).

Ora però, come già successo più volte, sta all’Iran muoversi. A Teheran la questione è da sempre campo di battaglia per le divisioni politiche interne. A fronte di un’ampia componente pragmatica, vivace anche tra i conservatori, c’è una linea reazionaria che sfrutta l’ideologia contro il “Grande Satana” americano — e l’Occidente in generale — per coprire una serie di rendite di interessi. Parte del Sepâh per esempio può restare aggrappato ai centri di potere solo se continua costantemente a mantenere alto l’ingaggio contro Washington e contro i nemici ideologici della Repubblica islamica (Israele e i regni sunniti).

Congelare il dossier

La soluzione temporanea serve anche a questo. Congelare il dossier, evitare che si incarnisca. L’obiettivo per Washington è anche quello di tenere sotto controllo la situazione, lontana dallo Studio Ovale, data la portata delle altre priorità dell’amministrazione e il costo politico che comporterebbe perseguire uno sforzo diplomatico più concertato. Questo ragionamento va anche inserito nelle dinamiche pre-elettorali già innescate, in vista di Usa2024.

Tutto è molto delicato: aprire al repressivo regime iraniano potrebbe essere utile per non perdere terreno in Medio Oriente. Ma anche diventare politicamente contestabile, sia dai Repubblicani sia dai movimentisti Democratici. La speranza è che perseguendo la via della de-escalation si possa incontrare il consenso della gran parte della leadership iraniana, e innescare un controllo (momentaneo?) delle dinamiche collegate alle posizioni più intransigenti. Alcune fonti iraniane definiscono già la situazione “cessate il fuoco politico”. Che tutto tenga è la speranza dell’amministrazione Biden.


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