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La legalità europea à la carte e il caso Polonia. Parla Clementi

La sentenza della Corte di Giustizia ha ribadito che ci sono dei principi “binding”, cioè vincolanti, che non possono essere valicati. Ciò che va rimarcato è che, anche i governi più “identitari”, si devono rassegnare a prendere atto che i principi della liberaldemocrazia sono il cuore dell’identità europea

Dopo la bocciatura della Corte europea sulla riforma della giustizia, la Polonia si oppone anche al nuovo Patto Ue sui migranti (a votare contro anche l’Ungheria). L’impressione è che le resistenze del governo guidato da Mateusz Morawiecki dipendano essenzialmente dal punto sul quale l’organismo europeo ha stabilito la bocciatura della riforma promossa nel 2019: la primazia del diritto comunitario su quello nazionale. “Il valore dello stato di diritto fa parte dell’identità stessa dell’Unione e comporta obblighi giuridicamente vincolanti”, si legge nella sentenza della Corte di Giustizia. “La primazia del diritto europeo su quello nazionale regge perché i Paesi devono riconoscere prima di tutto il principio di legalità europea”. Lo dice a Formiche.net Francesco Clementi, professore ordinario di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma.

La sentenza che condanna la riforma della giustizia polacca che riflessi avrà sui Paesi europei?

Il pronunciamento della Corte di Giustizia ribadisce sostanzialmente due principi, nel solco del Trattato di Lisbona: il principio di legalità europea e l’equilibrio nella separazione dei poteri che sono le architravi dei sistemi democratici europei, perché appunto, come dice la sentenza “un sistema giudiziario indipendente e imparziale”, è il cardine dello “stato di diritto” europeo.

Dunque la Polonia ha violato il principio di legalità europea?

Ci sono due fattori che concorrono a delineare il principio di legalità europea: la legalità dell’Unione in quanto tale e il rispetto di questo principio dagli ordinamenti dei singoli stati membri. Ordinamenti che, chiaramente, si devono muovere in coerenza con quello sovranazionale. Questo vale per la Polonia, così come vale per l’Italia e per tutti gli altri Paesi. L’Ue misura il benchmark di aderenza.

E sulla separazione dei poteri?

Questa è la seconda critica che l’Ue muove a Paesi come la Polonia e l’Ungheria. La separazione dei poteri e il relativo equilibrio che ne consegue sono pilastri inviolabili, sui quali peraltro è evidente che non ci possa essere una prevalenza del diritto interno dei singoli Paesi rispetto a quello dell’Unione. La legalità europea, in sostanza, non può essere “à la carte”. Per questo non si può immaginare una violazione del principio di separazione dei poteri.

Lei ha citato Polonia e Ungheria. I Paesi che durante il Consiglio Affari interni a Lussemburgo, si sono opposti ai due pacchetti legislativi sulle procedure di frontiera e sulla gestione dell’asilo in tema migranti. Quello della gestione dei flussi è un fronte caldissimo. Ci sono all’orizzonte dei temi che possono creare una frizione fra istituzioni comunitarie e ordinamenti nazionali?

Non possiamo aprioristicamente stabilire su quali argomenti ci potrebbero essere attriti fra le istituzioni comunitarie e alcuni Paesi (in generale i più riottosi verso l’Ue). Si può invece dire che la sentenza della Corte di Giustizia ha ribadito che ci sono dei principi “binding”, cioè vincolanti, che non possono essere valicati. Ciò che va rimarcato è che, anche i governi più “identitari”, in qualche modo si devono rassegnare a prendere atto che i principi della liberaldemocrazia sono il cuore dell’identità europea, quelli che il mondo conosce, riconosce e apprezza non poco: al punto tale che, per fermare il “contagio da democrazia”, taluno non ha esitato, come abbiamo visto, a muovere una guerra contro. Perché lo sanno anche gli autocrati che alla libertà dei singoli individui, al fondo, non si può comandare.

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