Cassese è quel mostro di arrivismo descritto da Travaglio? O non è per caso quest’ultimo a non capire troppo di cose complicate, che riguardino il campo giuridico o l’economia? L’analisi di Gianfranco Polillo
Dunque, secondo Marco Travaglio, Sabino Cassese, un tempo “austero e silenzioso amministrativista”, con il passare degli anni si sarebbe trasformato in un “garrulo tuttologo da talk e da intervista prêt-à-porter, nonché in un sederino d’oro candidato a tutte le poltrone su piazza con un posteriore extralarge a fisarmonica che gli consente di occuparne anche più d’una contemporaneamente”. Tra le accuse: “Ha sposato tutte le schiforme più incostituzionali mai viste”. Nel 2017 “aderì alla campagna del Foglio per sciogliere per eversione il MS5”. Tre anni dopo “bombardò come incostituzionali le misure anti-Covid di Conte”. Purtroppo la lingua batte dove il dente duole.
Rincarando la dose: è “un juke-box del diritto che distribuisce promozioni e bocciature a seconda di chi infila la moneta”. Tanti incarichi governativi “per lui e/o per lo stuolo di allievi protégé”. Conte (di nuovo) “lo tenne fuori e mal gliene incolse”. Ma il suo crimine più grave è stato quello di fare “clap-clap… al decreto incostituzionale che esautora la Corte dei Conti sul Pnrr: in due giorni ha rilasciato interviste plaudenti sul ‘sacrosanto’ golpetto a Repubblica, Messaggero, Giornale, Foglio e Tgcom 24”.
Si deve dire che questo ricco florilegio qualcosa ha prodotto. La voglia di capire meglio le ragioni degli uni – la Corte dei conti – e quelle degli altri: il governo pro-tempore. Senza tuttavia trascurare di coglier i tratti più generali di una normativa che ha fatto discutere, fino al punto da spostare l’accento sui massimi sistemi. Meglio ancora poi se dalla ricostruzione normativa possono emergere elementi tali da dirimere la questione da cui siamo partiti. Cassese è quel mostro di arrivismo descritto da Travaglio? O non è per caso quest’ultimo a non capire troppo di cose complicate, che riguardino il campo giuridico o l’economia?
Il punto di partenza è l’articolo 22 del decreto legge 76 del 2020. L’anno è significativo. Basti considerare chi era presidente del Consiglio: motivo in più che spinge Travaglio ad una difesa a spada tratta, trattandosi di un testo che reca le stigmate di Giuseppe Conte. Ma purtroppo per Travaglio anche in questo caso la realtà sembra essere ben diversa dalla sua apparenza. L’articolo citato, infatti, è solo una maliziosa ribattuta. Visto che l’originale era dato dall’articolo 11 della legge 15 del 2009: voluta dall’allora ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta. Particolare che contribuisce a rendere il mistero ancora più fitto.
Il progetto originario era un disegno di legge delega, volto a migliorare la performance della pubblica amministrazione e portare a termine la lotta contro i cosiddetti “fannulloni”. I dipendenti pubblici: secondo la colorita espressione di quegli anni. Nell’originario parto governativo non c’era traccia delle disposizioni destinate a riguardare le accresciute funzioni della Corte dei conti. Vi provvide, invece, il Senato, fin dalla prima lettura, approvando un emendamento presentato dal relatore Carlo Vizzini. Identico testo era stato presentato dal senatore Filippo Saltamartini. A dimostrazione di un comune input esterno. Altra stranezza: l’inserimento di norme precettive in un disegno di legge delega, per la cui attuazione era invece richiesto il varo dei successivi decreti attuativi.
Sarà stato, forse, per questa circostanza; sta di fatto che la norma sulle nuove prerogative della Corte dei conti rimase lettera morta, fino alle modifiche introdotte dall’articolo 22 del decreto legge 76 del 2020, sotto l’usbergo di Giuseppe Conte, presidente del Consiglio. Nel nuovo testo si introduce, in forma esplicita, l’istituto del “controllo concomitante” che, di fatto, introduce una sorta di cogestione tra il magistrato della Corte e la struttura pubblica chiamata ad operare sul piano amministrativo. Il rappresentante della Corte, a suo insindacabile giudizio, infatti, nel caso “di gravi irregolarità gestionali, ovvero di rilevanti e ingiustificati ritardi” può procedere “ai fini della responsabilità dirigenziale ai sensi e per gli effetti dell’articolo 21, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.
Ci vuole poco per capire l’effetto di una simile disposizione su un tran tran burocratico, come quello pubblico, che non brilla certo per iniziativa e voglia di fare. Ed ancor meno per immaginare il modus operandi del “Consiglio per il controllo concomitante”, subito costituto, che non si muove solo su input del governo o delle Commissioni parlamentari ma di sua iniziativa, ogni qual volta lo ritenga necessario. Siamo quindi nel campo di una sorta di “obbligatorietà dell’azione” senza i contrappesi previsti (omissione degli atti) di quella penale.
Con Mario Draghi, invece, si ritorna alla normalità. L’articolo 46 della legge 238 del 2021 estende il controllo della Corte dei conti al Pnrr. Ma non si tratta più del “controllo concomitante” bensì di quello “consuntivo” che si estrinseca nell’emissione di pareri “nelle materie di contabilità pubblica” e solo nei casi di impegni superiori a determinati valori. E comunque esclusivamente su richiesta delle Amministrazioni interessate. La ratio è evidente. Visto il successivo controllo della Commissione europea sui progetti da finanziare era bene, nei casi controversi, passare sotto quelle “forche caudine” solo dopo essere stati certi della correttezza della strada seguita. Correttezza – è bene non dimenticarlo – che è il presupposto per l’effettiva concessione dei fondi promessi.
E il “controllo concomitante” sulle “pratiche” del Pnrr? Si chiederà. In un Paese normale, l’esistenza di una norma specifica, come quella appena richiamata, avrebbe dovuto fare aggio su quella più generica. Ma l’Italia, purtroppo, è ancora ben lontana da quegli standard. Anche perché la lotta politica interna porta spesso a travalicare e sacrificare, per motivi di bottega, la difesa dell’interesse nazionale. E allora, per tagliare la testa al toro, non resta altro da fare che ipotizzare un nuovo intervento legislativo che rimetta le cose nella giusta proporzione. Porterà ancora acqua al mulino di Marco Travaglio? È possibile, ma è il male minore. Tanto a rimettere a posto le cose ci pensa l’elettorato.