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Parte la Davos estiva. La Cina contro il de-risking e con i sauditi

Il premier cinese Li Qiang inaugura la Davos estiva, ospitata a Tianjin. Messaggio contro il de-resking occidentale, molto ascoltato dalla folta delegazione saudita

Continua la liaison tra Pechino e Riad, con la sfera economico-commerciale protagonista. L’Arabia Saudita ha scelto di inviare una delle più folte (in termini di quantità, ma anche di qualità) delegazioni ufficiali alla “Davos estiva” che si svolge questa settimana in Cina. È uno dei vari passaggi da appuntare in agenda per chi segue le evoluzioni di questo rapporto tra la Repubblica popolare cinese e il Medio Oriente. Rapporto che in questa fase sembra stringersi sempre di più, col risultato che la questione ha preso un posto di rilievo nella competizione tra potenze Usa-Cina (macro tema che permea gli affari internazionali).

Il meeting dei Nuovo Campioni (dello sviluppo)

È in questo contesto che si muove la partecipazione di una delegazione di 24 persone, tra cui sei ministri e viceministri, al primo evento di persona del Forum economico mondiale (Wef) in Cina in tre anni. Tutto mentre sia Pechino che Riad cercano partner alternativi all’Occidente. Perfetto spirito per il “Meeting of the New Champions”, come si chiama l’incontro annuale colloquialmente noto come la Davos estiva, che si svolge nella città portuale nord-orientale di Tianjin.

Guidata dal ministro dell’Economia e della Pianificazione Faisal Alibrahim e dal ministro delle Comunicazioni e delle Tecnologie dell’Informazione Abdullah Alswaha, la delegazione saudita rivendica un ruolo di leadership nelle relazioni internazionali cinesi in questo momento. Il regno è il principale fornitore di petrolio della Cina; la Repubblica popolare è il primo partner commerciale dell’Arabia Saudita. Il valore degli scambi è di 116 miliardi di dollari nel 2022, in crescita sostanziale rispetto agli 87 miliardi dell’anno precedente (la crescita è in linea con quella regionale, aumentata da 180 miliardi di dollari nel 2019 a 259 miliardi di dollari nel 2021, secondo i dati di Carnegie e ChinaMed).

Soprattutto, i due Paesi pensano al futuro:  Mohammed bin Salman, erede al trono e già factotum a Riad, è desideroso di ricevere l’aiuto cinese per diversificare la propria economia e vuole investimenti che vadano oltre i tradizionali settori del petrolio, della raffinazione e delle telecomunicazioni. Xi Jinping ha colto l’opportunità, e già dall’Arab-China Business Forum ospitato a Riad poche settimane fa, le aziende cinesi si sono aperte a settori che vanno dall’acciaio alle piattaforme internet, al gaming al turismo.

Narrazioni e interessi

A Tianjin, gli onori di casa li ha fatti il premier Li Qiang, il secondo uomo politico cinese per importanza dopo il leader Xi Jinping (di cui è un intimo alleato). Li ha avuto il compito di raccontare una Cina migliore dei dati economici che escono, i quali invece dimostrano come il Paese fatichi a riprendersi dalla crisi prodotta dalla pandemia. “In Occidente si parla molto di de-risking e di ridurre la dipendenza dai partner economici”, ha detto: “Questi concetti sono una proposizione falsa, perché lo sviluppo della globalizzazione economica è tale che l’economia mondiale è diventata un’entità comune in cui tu ed io siamo entrambi mescolati. Le economie di molti Paesi si fondono l’una con l’altra, fanno affidamento l’una sull’altra, realizzano risultati l’una per l’altra e si sviluppano insieme. Questa è una buona cosa, non una cattiva cosa”.

Pechino è alle prese con un tentativo delle economie occidentali di evitare esposizioni alla Cina e creare forme di sicurezza economica in funzione di questo sganciamento. Ma è anche alle prese con le crescenti tensioni con gli Stati Uniti, i controlli sulle esportazioni di beni ad alta tecnologia da parte di Washington e la guerra in Ucraina, che sta pesando sulla fiducia degli investitori. Ma sono argomenti che non preoccupano eccessivamente Riad, non intenzionata a farsi invischiare in situazioni limitanti come i giochi a somma zero tra potenze.

Bin Salman vuole diversificare l’economia del Paese, dominata dal petrolio, verso settori quali la sanità, le infrastrutture, l’economia digitale, l’intelligenza artificiale, la robotica e il turismo. Tutto fa parte del super-programma noto come “Vision 2030”. La Cina può essere un buon partner, altrettanto l’India, ma anche ovviamente gli Stati Uniti o l’Europa. Nessuno escluso, nell’ottica Saudita. Nell’ambito di questo programma, a maggio la più grande azienda siderurgica cinese, Baowu Steel, ha rivelato un piano per pagare 437,5 milioni di dollari per una partecipazione del 50% in una joint venture con Saudi Aramco e il Fondo sovrano per gli investimenti pubblici sauditi. Questo mese, il gigante della genetica di Shenzen BGI ha aperto un laboratorio a Riad: “Questo laboratorio è dotato di piattaforme di sequenziamento ad alto rendimento, pipeline bioinformatiche avanzate e strumenti analitici basati sull’intelligenza artificiale per garantire standard di precisione e accuratezza di livello mondiale nei test e nelle analisi genetiche”, dice la società ricordando che l’investimento è parte della sezione “salute” della Belt & Road Initiative.

Bin Salman accetta di mettersi in affari anche su settori strategici. Jessica Wong, managing partner di eWTP Arabia Capital, uno dei maggiori fondi di private equity dell’Arabia Saudita, ha spiegato al Financial Times che il regno sta cercando una maggiore “localizzazione” dei servizi digitali e infrastrutturali rispetto a quanto offerto dalle aziende occidentali. “In ogni segmento, le aziende occidentali hanno una quota di mercato dell’80-90%, ma tutte ignorano la localizzazione”, dice Wong. I cinesi accettano spazi diversi.



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