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Tra trivelle in Xinjiang e repressione a Hong Kong, serve una nuova strada con la Cina

Stati Uniti, l’Europa e le democrazie asiatiche e africane dovrebbero coordinare un atteggiamento comune verso la Cina. Richiedendo innanzitutto che il Dragone sia coerente nella sua politica di transizione ecologica evitando nuove perforazioni petrolifere come nello Xingiang. Poi che mantenga le sue promesse di opening up del mercato dei capitali che in pratica non si sono mai concretizzate. L’intervento di Marco Mayer

 

Da tutte le biblioteche pubbliche e dalle 39 librerie private di Hong Kong sono spariti i libri critici verso il regime di Pechino e in particolare quelli scritti da storici che ricostruiscono le vicende di piazza Tiennamen.

La notizia – pubblicata ieri dal South China Morning Post – è l’ennesimo segno del giro di vite autoritario che il governo cinese ha avviato tre anni fa per reprimere le grandi proteste studentesche e giovanili del 2019.

Si calcola che solo nel biennio 2020-21 circa 130.000 cittadini cinesi di HK siano emigrati all’estero. L’esodo di massa (che ha coinvolto alcuni dei migliori talenti) è continuato nel 2022 e nei primi mesi del 2023.

La sparizione dei libri a cui ho accennato all’ inizio è un indicatore del clima che spinge all’esodo e certamente non è di buon auspicio per il futuro di una metropoli molto vitale e tradizionalmente aperta alle libertà civili, agli scambi culturali, alle diverse confessioni religiose, alla cooperazione scientifica internazionale.

Mentre a Hong Kong sono spariti i libri qualcosa di ben peggiore si sta verificando nella regione cinese dello Xingiang (dove vive la minoranza islamica degli uiguri oggetto da anni di persecuzioni).

Le trivelle di Sinopec (il colosso petrolifero statale del Dragone) hanno da poco iniziato perforazioni sperimentali a ben 10.000 metri di profondità alla ricerca di petrolio e gas in palese contrasto alla lotta contro il cambiamento climatico.

Che fare? Al Festival Internazionale dell’Economia di Torino il Professor Enrico Giovannini, ministro del governo Draghi ha affermato che – nonostante le dichiarazioni retoriche di facciata – gli Stati membri dell’ Unione Europea stanno già facendosi concorrenza tra di loro per accaparrarsi il massimo degli investimenti di capitale che la Cina ha deciso di destinare in Europa nel prossimo decennio.

Nel contempo la Casa Bianca – come confermano le dichiarazioni di Sullivan – sta ricalibrando la sua politica verso la Cina.

A questo punto due sono gli scenari possibili.

Il primo è che si ripeta quanto è accaduto alla fine degli anni novanta quando (per una sostanziale sudditanza alla ideologia liberista) Clinton negli USA (e Blair, Schroeder, D’Alema, Prodi, ecc.) hanno spalancato le porte al processo che il celebre economista Dani Rodrik ha definito iperglobalizzazione. In sintesi è stata avvallata la parola d’ordine “liberi tutti”.

Ma in questo contesto la Cina per più di 20 anni ha adottato una “globalizzazione à la carte”. In pratica ha approfittato di tutti i benefici della globalizzazione senza aprire pienamente al mondo la propria economia.

Il secondo scenario è che gli Stati Uniti, l’Europa e le democrazie asiatiche e africane concordino un atteggiamento comune verso la Cina. Richiedendo innanzitutto che il Dragone sia coerente nella sua politica di transizione ecologica evitando nuove perforazioni petrolifere come nello Xingiang. Poi che mantenga le sue promesse di opening up del mercato dei capitali che in pratica non si sono mai concretizzate.

I rapporti tra Washington e Pechino non si possono affrontare soltanto con la dottrina del contenimento alla George Kennan come all’epoca del lungo confronto Mosca/Washington.

La politica internazionale è inedita perché il tendenziale bipolarismo Usa/Cina è intriso di interdipendenza economica, sociale e ambientale.

Negli Stati Uniti serve una politica estera che tenga molto più conto degli interessi nazionali dei paesi amici e alleati e in Europa – anche in vista delle elezioni europee – una lungimiranza strategica nei confronti dei gravi rischi che la Cina rappresenta, rischi che spesso sono offuscati dalle opportunità economiche a breve e brevissimo termine.

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