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Come affrontare la questione Tunisia secondo Mezran e Melcangi

In una conversazione con Formiche.net, Alessia Melcangi (Sapienza) e Karim Mezran (Atlantic Council) descrivono le criticità del contesto tunisino, sia dal punto di vista interno sia da quello internazionale. Il presidente Saied ha poche opportunità, mentre l’Italia ha aperto uno spiraglio

Spetta a Kais Saied essere convincente, solo in questo modo il presidente tunisino potrà vedersi sbloccato l’aiuto progettato dal Fondo monetario internazionale (Imf), 1,9 miliardi di dollari per salvare il Paese da un disastroso default — che significherebbe ulteriore destabilizzazione nel Nordafrica. È questa la linea che esce da Washington, dove ieri è stato in visita lampo il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha incontrato l’omologo Antony Blinken.

Il segretario di Stato statunitense ha condiviso le preoccupazioni dell’Italia, indubbiamente il Paese più attivo in questo momento nel tentativo di gestire il complicato quadro nordafricano, dove la crisi economica e istituzionale tunisina ha in questo momento il posto in cima all’agenda delle priorità (non che ne manchino altre, tra il caos libico e il precario equilibrio tra Marocco e Algeria). Il governo Meloni è interessato a trovare una forma di soluzione, rapida e pragmatica, perché alla complessità della destabilizzazione — che potrebbe aprire spazi a questioni più strategiche, come la penetrazione di attori rivali — si somma la necessità tattica di far fronte al contesto securitario. 

Semplificando, il flusso migratorio in arrivo dal Mediterraneo, di cui la Tunisia è adesso il maggiore rubinetto. L’amministrazione che Saied si è completamente intestato, stracciando l’unico processo di democratizzazione attivato dalle Primavere arabe, è incapace di rispondere alle necessità della popolazione. Il presidente, che il 25 luglio 2021 aveva sospeso per decreto i poteri di governo e parlamento (e ha iniziato a incarcerare le opposizioni), pianificava una riqualificazione del Paese contro il sistema corrotto che si era creato. A distanza di quasi due anni, la situazione non ha fatto che peggiorare. Complice anche il conflitto russo in Ucraina che ha innescato problematiche di sicurezza alimentare ed energetica, l’economia è bloccata, la disoccupazione sale come l’inflazione, e Tunisi è sull’orlo del baratro.

Stante il contesto, non solo le autorità tunisine non sono in grado di far fronte ai traffici di esseri umani esogeni, che usano la poca distanza dalle coste italiane come punto di slancio per chi dai Paesi africani più meridionali cerca disperatamente la rotta mediterranea; ormai dalla Tunisia cercano di scappare anche i tunisini, per le contrazioni delle libertà, per le condizioni di vita in costante impoverimento.

La situazione però è bloccata perché l’aiuto del Fmi è collegato a un piano di riforme che Saied dovrebbe garantire e contro cui invece il presidentissimo tunisino si scaglia — li chiama “diktat” e rifiuta il dialogo. Ma misure come la riduzione dei sussidi sono complicate da adottare per Tunisi, perché Saied sa che nel delicatissimo patto sociale che ancora evita la guerra civile, il suo ruolo si regge sulla possibilità di garantire queste forme di assistenza costante alle collettività — che inizialmente hanno anche appoggiato la sua presa sul potere, per immaturità delle sensibilità democratiche individuali e perché oggettivamente vessate da un sistema parlamentare e di governo instabile e infetto.

Gli Stati Uniti “sono pronti a sostenere la Tunisia se la sua leadership deciderà di procedere con il programma di riforme economiche e raggiungerà un accordo con il Fondo monetario internazionale”, ha detto Blinken, ma “si tratta di una decisone sovrana”. Gli Stati Uniti per ora non sono abbastanza convinti, e questo pesa sulle posizioni del Fmi, perché non vedono impegno da parte di Saied, spiega Karim Mezran, tra i massimi esperti internazionali di Nordafrica, senior fellow del Rafik Hariri Center dell’Atlantic Council di Washington.

“Siamo davanti a un dilemma: c’è una posizione massimalista, che vede nel rispetto delle condizioni messe dal Fmi l’unica via per aiutare Tunisi; ce n’è una opposta, che ritiene necessario aiutare Saied senza condizioni. L’Italia si sta caratterizzando perché portatrice di una via intermedia, basata su una consapevolezza pragmatica: Saied controlla il Paese, e con lui occorre lavorare. Dunque, servirebbe avviare un’assistenza progressiva e condizionarla ad alcune azioni. Magari il presidente del Consiglio italiano potrebbe chiedere al presidente tunisino di fare un passo simbolico rilasciando il leader di Ennahda, Rashid Gannushi, arrestato di recente”, aggiunge Mezran.

Gannushi ha 81 anni, è stato presidente del parlamento fino al luglio 2021 e capo della componente politica islamista Ennahda. Il suo arresto, due mesi fa, su ordine della procura antiterrorismo, rientra nelle mosse di contrazione delle libertà delle opposizioni messe in piedi da Saied. Che a quanto pare non intende dare spazio ad aperture per ora. “Il presidente tunisino minaccia, non è chiaro quanto a ragione, che se non dovesse ottenere assistenza dal Fondo monetario si rivolgerebbe ai Brics o ad altri attori globali come la Cina. Usa una retorica a tratti anti-occidentale, definisce ‘diktat’ le condizioni poste dal Fmi, sostiene che nessuno ha diritto a interferire nelle dinamiche interne tunisine”.

Il problema è che la situazione interna è arrivata a un punto critico, con le agenzie di rating che hanno declassato ulteriormente il debito tunisino, ormai in totale rischio insolvenza, e la paura è che, anche ammesso che gli aiuti del Fmi arrivino, potrebbero comunque essere insufficienti, spiega Alessia Melcangi, docente di Storia contemporanea del Nord Africa e del Medio Oriente alla Sapienza di Roma e non-resident fellow dell’Atlantic Council. “La sovranità economica di cui parla Saied è in effetti messa molto a rischio dalla spirale del debito che si è innescata”. 

Ma stante la situazione, quanto potrà reggere il consenso interno di Saied? “Nonostante il supporto ricevuto, anche attraverso una coalizione tacita e sull’onda del risentimento popolare contro una classe politica vista come corrotta, è sul terreno economico che si misura Saied. Ed è sulla sua capacità di risolvere questi problemi che può saltare il banco”, spiega Melcangi. “La gravità della crisi economica fino ad ora non ha scatenato grosse proteste di massa in quanto per il Presidente tunisino è stato facile accusare Ennahda, che quindi ha fatto da parafulmine ai molti problemi del paese. Ma la situazione potrebbe diventare rapidamente insostenibile”.

Saied sta combattendo contro le istituzioni finanziarie occidentali usando, come detto, una forma di narrazione simile a quella di altri Paesi che intendono cercare alternative attraverso sponde come i Brics e altre sfere di influenza — il rapporto bilaterale con la Cina per esempio — ma il problema è che nei fatti, la Cina per prima, collega le proprie eventuali attività allo sblocco degli aiuti del Fmi che soli potrebbero innescare un ciclo virtuoso di ripresa economica, cosa che permetterebbe a Pechino di investire con profitto. “Saied ha realmente poche opzioni, con Pechino che ha fatto finora investimenti minori e simbolici, e con gli Usa che hanno ridotto il budget sulla cooperazione militare perché sono scontenti del suo atteggiamento. E questo può alterare il precario equilibrio su cui si basa la coalizione di poteri che lo sostiene, nonché erodere il consenso dei cittadini se si creano ulteriori situazioni di insicurezza”, conclude Melcangi.


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