Sperimentata sul campo nel conflitto russo-ucraino, Starlink, la rete di comunicazione satellitare appartenente alla galassia societaria che fa capo a Elon Musk, ora potrebbe diventare parte integrante dell’apparato militare giapponese. Big Tech entra a fianco dei tradizionali “defense contractor” a supporto delle relazioni strategiche internazionali Usa. Il commento di Andrea Monti, professore incaricato di Digital Law nel corso di laurea magistrale in Digital Marketing dell’università di Chieti-Pescara
Secondo la posizione ufficiale espressa dal ministro della Difesa, Hamada Yasukazu, l’interesse del governo giapponese verso Starlink è motivato dalla necessità di incrementare la resilienza del sistema di comunicazione fra le tre Armi della Japan Defense Force. Ma con buona probabilità, pur non essendo stato dichiarato pubblicamente, per consentire una migliore integrazione con i partner occidentali (Stati Uniti innanzi tutto, ma anche Regno Unito) alla luce della nuova strategia di sicurezza nazionale, dello sviluppo nippo-anglo-italiano di un nuovo aereo da combattimento, e dell’incrementata presenza occidentale (e italiana) nel Pacifico.
In assoluto, l’utilizzo di forniture militari e la condivisione di tecnologie come strumento per cementare alleanze o controllare il potenziale militare di Paesi satellite non è un fatto nuovo, così come non è, evidentemente, un fatto nuovo che Big Tech (e anche aziende più piccole ma ad altissimo contenuto tecnologico) siano diventate un elemento fondamentale nella definizione degli assetti operativi delle forze armate.
Questa considerazione vale, in modo particolare, per il comparto delle comunicazioni e delle reti di trasporto dati che diventano fondamentali per consentire l’impiego di sistemi d’arma sempre più autonomi e che, pur nelle loro versioni che richiedono la presenza di un operatore umano, non possono fare a meno di scambiare rilevanti quantità di dati in modo veloce e sicuro.
In questo senso, dunque, l’inclusione di una rete satellitare privata in una infrastruttura di comando e controllo straniera rappresenta un fatto sostanzialmente inevitabile e, anzi, desiderabile dal punto di vista di Paesi, come gli Stati Uniti, che fanno della superiorità tecnologica un elemento fondamentale della gestione delle alleanze militari ma che contemporaneamente possono trovare utile ricorrere a tecnologie proxy disegnate e gestite da soggetti privati.
Tuttavia, l’ingresso di Starlink nei teatri operativi è avvenuto in modo abbasta peculiare. Elon Musk ha inizialmente offerto al governo ucraino la disponibilità gratuita della propria rete satellitare sulla base di quello che sembrerebbe un atto di generosità per sostenere the good fight e che ha certamente contribuito al successo delle operazioni militari di Kiev. Questa disponibilità gratuita, però, si è rivelata non illimitata né a tempo indeterminato perché, da un lato, la società ha unilateralmente impedito che la rete di comunicazioni venisse usata per controllare droni e altri veicoli unmanned e circa un mese fa, a fronte del “preavviso di distacco” di Musk, a seguito di una gara il Pentagono si è assunto i costi dell’uso di Starlink sul teatro ucraino.
Non è ragionevole pensare che le posizioni di Musk siano state assunte in totale autonomia dall’apparato decisionale statunitense, ma è altrettanto ragionevole ritenere che, non essendo Starlink un’azienda di Stato, abbia mantenuto un certo margine di indipendenza dall’esecutivo nel compiere determinate scelte.
Se così è stato, si rinforza la percezione che il modello tecno-neomedievalista, basato su un sistema multipolare dove Big Tech interagisce da pari a pari con Stati sovrani, sia ben più di una costruzione teorica e rappresenti una chiave di lettura utilizzabile per valutare complessivamente l’impatto sugli interessi nazionali degli Stati delle strategie commerciali del comparto tecnologico statunitense. Dunque, anche se non è possibile stabilire un legame di causa-effetto fra l’uso di Starlink nel conflitto russo-ucraino e la scelta del governo giapponese di sperimentarne l’impiego nell’ambito del proprio apparato militare, vista dall’esterno, la sequenza degli eventi sembra suggerire che la prova sul campo della rete satellitare di Musk abbia fornito una potente leva di marketing per convincere altri Paesi —per ora, il Giappone e in futuro chissà quali altri— a servirsene.
Tuttavia, e qui entra in gioco la prospettiva tecnoneomedievalista, gli eventi che hanno caratterizzato l’uso di Starlink in Ucraina, e in particolare la decisione unilaterale di limitarne le modalità di impiego operativo, mettono in dubbio l’effettiva razionalità di coinvolgere attori privati stranieri nel funzionamento di componenti critiche del sistema di difesa nazionale, senza garantirsi la possibilità di un effettivo controllo sulle tecnologie in questione. Sarebbe, infatti, difficilmente sostenibile la scelta di dotarsi di una qualsiasi tecnologia per scoprire —o sapere già in anticipo— di non poterla usare appieno quando serve, cioè in un momento di crisi nel quale dovrebbe essere limitato al massimo il rischio di perdita di efficienza operativa.
Dall’altro lato, la necessità di rendere interoperabili tecnologie militari nazionali con quelle di attori privati implicherebbe anche, in Paesi dotati di un’industria bellica e tecnologica matura, dover condividere propri sistemi e informazioni classificate. Ancora una volta: il fenomeno esiste, e non da oggi, quindi il punto non è preoccuparsi del “se”, ma del “cosa”, “come”, “quanto” condividere e, soprattutto, della possibilità di un controllo effettivo su questo scambio tecnologico che potrebbe rivelarsi estremamente sbilanciato.
Infine, in termini più generali il caso Starlink consente una ulteriore considerazione: volenti o nolenti, gli Stati devono accettare il fatto che il confine fra il comparto difesa e quello della ricerca e del trasferimento tecnologico del settore civile è sempre più labile. Di questo si dovrebbe prendere atto per progettare una strategia delle politiche dell’innovazione che non sia limitata da categorie che la storia ha definitivamente reso obsolete.