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Guerra dei chip, il contrattacco cinese. Limiti all’export di metalli essenziali

Pechino impone restrizioni su gallio e germanio, utilizzati per produrre i semiconduttori, per motivi di sicurezza e interesse nazionale. È la risposta ai limiti sempre più duri di Washington e alleati per ostacolare l’industria cinese dei chip avanzati. Nonostante la propaganda cinese provi a tingere la mossa di verde

Dopo l’uno-due di Stati Uniti e Olanda, ecco il contrattacco cinese. Lunedì il ministero del Commercio di Pechino ha annunciato nuove restrizioni all’esportazione di due metalli necessari per la produzione di semiconduttori e altri dispositivi elettronici. La mossa fa seguito a una nuova serie di export control nel campo dei microchip che Washington, in accordo con le altre capitali dei Paesi che dominano la manifattura avanzata, sta imponendo all’industria cinese per ostacolarne lo sviluppo.

I nuovi controlli cinesi, in vigore dal primo agosto, riguarderanno gallio e germanio. Sono due delle venti materie prime critiche su cui la Cina detiene un controllo spropositato, essendo il principale fornitore globale e la forza dominante nei segmenti della produzione e della raffinazione. I due metalli sono impiegati in una vasta gamma di prodotti: si possono trovare nei pannelli solari, nei laser e nei visori notturni oltre che negli onnipresenti microchip, i “cervelli” dei prodotti elettronici moderni.

Secondo la dichiarazione, gli esportatori di gallio e germanio dovranno richiedere una licenza al ministero del Commercio se vogliono iniziare o continuare a spedirli fuori dal Paese. Le aziende sono tenute a comunicare i dettagli degli acquirenti esteri e delle loro richieste e, se necessario, le revisioni potrebbero essere sottoposte al Consiglio di Stato, l’organo esecutivo e supremo amministratore della Repubblica popolare cinese.

La motivazione, nelle parole dell’autorità cinese, ha a che fare con la sicurezza e l’interesse nazionale: lo stesso principio dietro ai controlli delle esportazioni occidentali. E Pechino è tutt’altro che timida nello spiegare che si tratta di una rappresaglia. In un editoriale-lampo, il Global Times (tabloid del dipartimento di Pubblicità e Propaganda del Partito comunista cinese) ha definito le restrizioni “giuste e virtuose”, per poi ammantare la questione di una patina ambientalista, spiegando che la Cina vuole optare per uno sviluppo più sostenibile anziché inquinare solo perché c’è chi possiede questi metalli, ma ne esporta meno.

“Chi dubita della decisione della Cina potrebbe chiedere al governo degli Stati Uniti perché detiene le più grandi miniere di germanio al mondo ma le sfrutta raramente. Oppure potrebbero chiedere ai Paesi Bassi perché hanno incluso alcuni prodotti legati ai semiconduttori, come le macchine litografiche, nella loro lista di controllo delle esportazioni. Sono loro a mettere in discussione la catena di approvvigionamento mondiale, e le colpe che appartengono a loro non dovrebbero mai essere scaricate sulla Cina, che sta difendendo i propri interessi nazionali legali in questo mondo piuttosto incerto”, conclude il Global Times.

È proprio il riferimento alle misure di export control olandesi che rivela la vacuità della linea ambientalista. Non è un mistero che la Cina abbia beneficiato enormemente della tendenza occidentale all’outsourcing della produzione e raffinazione di materie prime a opera dei Paesi occidentali. Anzi, oggi consolida la dominanza acquisita nel settore attraverso accordi con Paesi terzi per ottenere più controllo a monte della filiera dei materiali critici. Senza preoccuparsi eccessivamente dell’impatto ambientale e in concorrenza diretta con i Paesi dell’Occidente geopolitico che oggi spingono per diversificare l’importazione e ricominciare a raffinare, assumendosi anche la responsabilità che ne consegue in termini di CO2.

Piuttosto, è evidente come Pechino voglia sfruttare questa posizione di potere come leva contro i Paesi occidentali. Questi ultimi, da parte loro, sono intenti a limitare le esportazioni dei loro gioielli tecnologici (come i semiconduttori avanzati) che possono agire come moltiplicatori della potenza bellica di uno Stato rivale. La Cina non è ancora in grado di produrre i semiconduttori avanzati, industria che considera fondamentale per la propria autonomia strategica – e uno dei motivi per cui intende invadere Taiwan, leader nella produzione dei chip migliori.

Questa è la stessa volontà di potenza che spinge Pechino a usare tutti i metodi possibili per ottenere segreti industriali, o a minacciare di ripercussioni i Paesi che limitano le esportazioni nel campo dei chip più avanzati – lavorando per ostacolare non l’economia cinese, ma il vantaggio strategico che Pechino potrebbe ottenere ai loro danni. In quest’ottica, è evidente che le nuove restrizioni siano proprio questo: un’arma commerciale da brandire contro l’Occidente, e un’escalation nella guerra dei chip.


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