In Ue si respira preoccupazione per le misure con cui la Cina potrebbe fermare l’approvvigionamento di metalli per la transizione. Ma ogni taglio delle esportazioni darebbe ragioni in più per diversificare le supply chain e investire in reshoring e la Storia insegna che i tentativi precedenti sono stati fallimentari
Con l’escalation della guerra dei chip in corso, l’Unione europea sta mappando le possibili criticità. Oggi (giovedì 6 luglio, ndr) i rappresentanti al commercio dei Ventisette hanno discusso su come reagire alle nuove restrizioni all’esportazione imposte dalla Cina su due metalli, il germanio e il gallio, fondamentali per una serie di prodotti – dai semiconduttori ai pannelli solari, passando per la fibra ottica – senza i quali non si possono portare avanti la transizione ecologica e digitale dell’Ue.
Le misure cinesi sono una risposta a una serie crescente di limiti da parte occidentale. L’ultima è stata la stretta olandese sull’esportazione di macchinari fabbrica-chip avanzati, che fa seguito a restrizioni Usa (già implementate e futuribili) in una serie di comparti ad alta tecnologia: chip, cloud computing, intelligenza artificiale. E Pechino ha risposto per le rime in un settore che controlla: quello delle materie prime, avvertendo che le restrizioni su gallio e germanio sono “solo l’inizio”.
A prima vista, il possibile impatto di queste restrizioni è molto grave: dalla Cina proviene il 90% del germanio e la quasi totalità del gallio venduto al mondo. Per Nicola Beer, europarlamentare tedesca di Renew e relatrice del Critical Raw Materials Act (con cui l’Ue progetta di sottrarsi a questo genere di ricatti), le misure dimostrano “che i cinesi si sono messi i guantoni da boxe, e questo rende il nostro lavoro qui sempre più importante… È chiaro che abbiamo bisogno delle nostre capacità di estrazione, lavorazione e riciclaggio”, ma anche “di un commercio più affidabile con altri Paesi”, come ha detto a Politico.
Tuttavia, il dominio cinese nel campo delle materie prime è “virtuale”: non dipende dalle riserve nel sottosuolo cinese, che sono comunque ingenti, ma dal fatto che la Cina negli ultimi decenni ha centralizzato la gran parte delle operazioni di raffinazione delle materie prime critiche – che spesso e volentieri importa da Paesi terzi. E le nuove restrizioni cinesi probabilmente daranno un’altra ottima ragione a quegli attori (tra cui Usa, Ue, India e Australia) che già si muovono nel solco del de-risking, ridisegnando la catena di approvvigionamento per ridurre l’esposizione verso la Cina.
Se Pechino attivasse le misure e tagliasse le esportazioni verso Paesi terzi, lo shock iniziale farebbe schizzare i prezzi in più settori (abbiamo visto questa dinamica in grande con la crisi del Covid) e rallenterebbe la produzione di certi prodotti. Ma così com’è avvenuto con il pivot europeo per non comprare più gas russo, dopo che Vladimir Putin ha deciso di fare delle esportazioni una leva geopolitica, il mercato può dimostrarsi un animale sorprendentemente resiliente e pieno di risorse (altrove).
Anzitutto, il taglio persistente delle esportazioni cinesi e i prezzi più alti renderebbero molto più conveniente iniziare la produzione di materiali critici altrove, considerato che i metalli in questione non sono rari, sono solo “sporchi” da estrarre (e l’offerta cinese è a buon mercato). In più, la storia dimostra che i tentativi precedenti della Cina per limitare la vendita di terre rare hanno solo diminuito la sua quota di mercato, spingendo altri Paesi ad adoperarsi per assicurarsi forniture di metalli non controllate da Pechino e limitandone la leva.
Gli esempi sono più vicino a noi di quanto si pensi. Bloomberg ricorda che dopo anni di tasse più alte e limiti alle esportazioni nel settore delle terre rare, nel 2010 la Cina bloccò temporaneamente le esportazioni verso il Giappone in seguito a un incidente navale in acque contese. Questo ha scatenato una corsa alla ricerca di forniture alternative negli anni successivi: la produzione di terre rare in Australia e negli Usa è aumentata di conseguenza, riducendo la quota cinese dal 98% al 70% nel 2022, secondo i dati del servizio geologico statunitense.
Anche oggi, la possibilità che la Cina imponga quelle restrizioni fanno meno paura alle aziende. Tsmc, leader assoluto nella produzione dei semiconduttori avanzati, non prevede nessun tipo di impatto diretto. Le hanno fatto eco l’olandese Nxp Semiconductors e la statunitense Microchip Technology, mentre la connazionale Intel ha spiegato che la loro supply chain “globale e diversificata riduce al minimo il rischio di cambiamenti e interruzioni locali”, e la tedesca Infineon ha dichiarato che la gran parte dei suoi approvvigionamenti proviene da altri Paesi.
Quei controlli alle esportazioni, dunque, sono un’arma a doppio taglio data l’ampia disponibilità globale di materie prime. Piuttosto, continua Bloomberg, lo strumento più efficace nelle mani del Dragone per sanzionare gli altri Paesi sarebbe “tagliare l’accesso al suo enorme mercato o limitare le esportazioni di beni strategicamente importanti”. Peccato che questo favorirebbe ulteriormente il decoupling che Pechino vuole evitare, “compromettendo i suoi obiettivi dichiarati di garantire che la nazione sia dominante nelle nuove tecnologie ed essenziale nelle catene di approvvigionamento globali”.