Sfiorò l’elezione alla presidenza della Repubblica, fu presidente del Consiglio dei Ministri e titolare del dicastero degli esteri. Oltre che segretario della Democrazia Cristiana. Fu uno dei tre pilastri del Caf. Il parlamentare di FdI ricorda il suo rapporto con l’ex premier
Dal 1990, prima del tracollo di Tangentopoli, si definisce “un forlaniano”. Luciano Ciocchetti, deputato di Fratelli d’Italia ma visceralmente democristiano, l’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani, lo conosceva bene. Lo chiama “il segretario”. Perché questo è stato, prima di tutto, l’ex presidente del Consiglio per chi ha avuto la capacità di seguirne il messaggio. “Un galantuomo, che ha sempre anteposto il bene dell’Italia a qualsiasi interesse particolare”.
Qual è stato secondo lei il tratto peculiare dell’azione politica dello scomparso segretario della Dc?
Molti muovevano a Forlani l’accusa di non essere capace di decidere. In realtà, è stato capace di decidere per il meglio, nell’interesse dell’Italia dimostrando sempre una grande capacità di mediazione. E questa capacità la declinò anche nel famoso CAF, preferendo l’alleanza con i socialisti rispetto a quella con il Pci, pur nel rispetto delle posizioni di un partito avversario.
Dal 1976 al 1979 Forlani fu ministro degli Esteri. Quale fu la sua linea?
Fu un interprete di quella che è sempre stata la linea della Democrazia Cristiana. Forlani fu un atlantista convinto e rinsaldò il legame con gli Stati Uniti, ma con la mente aperta anche ad altre realtà. Anche in politica estera dimostrò grandi capacità di mediazione, in particolare nei rapporti tra il nostro Paese, il Nord Africa e Medio Oriente. Va detto, comunque, che la sua bussola è sempre stata orientata a rafforzare il ruolo dell’Italia sullo scacchiere internazionale.
Poi ci fu il 1992. L’inizio della fine. Lei in quel periodo militava nella corrente forlaniana della Dc. Come visse quel periodo drammatico che di fatto segnò la fine non solo del partito ma di un’era politica?
Personalmente penso che la vicenda giudiziaria che visse Forlani dovrebbe far riflettere tutta l’Italia e in particolare i giustizialisti. Venne condannato perché “non poteva non sapere”. Il segno evidente di una magistratura politicamente orientata che utilizzò il potere per distruggere un intero sistema politico.
Quello fu anche l’anno nel quale l’ex segretario Dc sfiorò la presidenza della Repubblica.
Sì, gli mancavano solamente 13 voti per diventare Capo dello Stato. Poi, complici anche le divisioni interne alla Dc, quell’elezione non si concretizzò mai. E, anche sull’onda emotiva provocata dalla strage di Capaci, venne scelto Oscar Luigi Scalfaro. Lui ritirò la sua candidatura. Ma sono certo che, anche alla luce di quanto è stato provocato a seguito di Tangentopoli, se fosse stato eletto Forlani la storia avrebbe assunto un’altra piega. A partire dal fatto che sarebbe stato incaricato Craxi di formare il governo.
Non tutti i partiti ebbero lo stesso trattamento.
Questo mi pare evidente. Ma è emblematico il fatto che il Pci spendeva molto più della Democrazia Cristiana per l’attività politica. Non solo: i segretari di sezione comunisti erano stipendiati dal partito, mentre i democristiani erano tutti volontari. Eppure la storia è andata così.
Lei quando conobbe Forlani?
Ebbi modo di approfondire la sua conoscenza tra il 1990 e il 1991 quando, dalla corrente Forze Nuove, aderimmo alla corrente “forlaniana”. Tra gli esponenti di quella corrente trovai, tra gli altri, anche Pier Ferdinando Casini. Mentre uno dei figli di Forlani, Alessandro, lo conoscevo già da tempo perché militavamo nel movimento giovanile assieme.
Se dovessimo estrapolare un elemento del suo lascito politico?
La capacità di fare politica nel merito delle questioni, di sviluppare una visione a lungo termine e fortemente radicata da un lato all’Europa e dall’altra alla dimensione nazionale. Lui immaginava un’Europa degasperiana, profondamente diversa da ciò che è stata l’Unione negli ultimi 25 anni.