Il racconto degli ultimi giorni vissuti dal capo del Cremlino indicano pura schizofrenia, che mostra anche la reale debolezza di Putin. Incerto nel muoversi e nell’agire. Ecco perché secondo l’analisi di Gianfranco Polillo
Ma dov’è finita l’ira funesta del pelide Achille? Quel grido “vendetta tremenda vendetta” lanciato da Vladimir Putin, novello Rigoletto, contro la “vil razza dannata” della Wagner. Di fronte alle telecamere della Tv di regime aveva infierito contro i “traditori” promettendo che nulla sarebbe rimasto impunito. Nessun nome, per carità. Come se Yevgeny Prigozhin non fosse mai esistito. Fin da allora, un segnale di debolezza che, tuttavia, la maggior parte degli osservatori occidentali non aveva colto. Manifestando, al contrario, preoccupazioni per le sorti del capo della Wagner. Esiliato, come erroneamente si riteneva, in Bielorussa. Ma a un passo dalla sua probabile esecuzione.
Nulla di più sbagliato. Yevgeny Prigozhin è più vivo che mai e lotta insieme a noi. Si era solo inabissato, in attesa che l’ira del grande capo del Cremlino sbollisse e che si tornasse al dialogo. Strategia al momento vincente. Domani si vedrà. Sta comunque il fatto che nessuno è andato a Canossa. Al contrario è stato proprio il nuovo Zar ad invitare una folta delegazione dei presunti traditori al Cremlino. Per offrire loro caviale e vodka gelata.
Doveva rimanere una riunione carbonara, ma qualcosa è trapelato e finito nella redazione francese di Liberation. E da quel momento la notizia si è diffusa a livello internazionale, costringendo lo stesso Dimitri Paskov, il portavoce di Putin, ad intervenire.
Quale sia stata la “gola profonda” è difficile dire. Ma tutti gli indizi portano allo stesso Prigozhin, o chi per lui. Il principale interessato nello smentire tutte le illazioni che avevano riguardato la sua persona.
Meno di una settimana fa era stato Alexander Lukashenko, il presidente della Bielorussia, in teoria il grande mediatore, che aveva convinto gli arditi della Wagner a tornare indietro, rinunciando alla marcia su Mosca, a chiamarlo in causa. “Non è in Bielorussia” dove Putin si pensava l’avesse confinato insieme ai ribelli della Wagner che non avevano accettato di rientrare nei ranghi dell’esercito regolare, – aveva detto – “ma a San Pietroburgo, forse a Mosca”. E c’era già chi temeva una sua possibile definitiva dipartita.
Tanto più che, solo qualche giorno prima, la Tv russa aveva trasmesso in diretta la perquisizione, operate dalle forze di sicurezza, nella casa dell’oligarca. Una casa dal lusso sfrenato, come è lecito aspettarsi da un uomo ricco come Prigozhin, con tanto di elicottero parcheggiato fuori. Dotata di un ambulatorio medico e una sala di preghiera con le tradizionali icone. Ma anche con mille stranezze: dal maquillage necessario ad ogni travestimento, con tanto di barbe finte e parrucche, ai passaporti intestati ai nomi più diversi. E poi i tanti soldi in contanti e i lingotti d’oro. La possibile prova – secondo le accuse del Capo del Cremlino – dei possibili illeciti finanziari commessi.
Insomma: un quadro, in apparenza, facilmente decifrabile. Prigozhin, il traditore, e non il patriota, come lui stesso si era definito, aveva tentato, con la sua marcia verso la capitale, di azzoppare i vertici militari – soprattutto gli odiati Shoigu, ministro della difesa e Gerasimov, il capo di stato maggiore – ma aveva fallito. Non era stato schiacciato “a metà strada come una pulce”, come aveva pronosticato Lukashenko, per convincerlo ad abbandonare la partita. Ma la sua sorte sembrava segnata.
Ed invece “contrordine compagni”. La rimpatriata, al Cremlino, avviene lo scorso 29 giugno, a soli 5 giorni dal mancato putsch, alla presenza dello stesso Putin, accompagnato, tuttavia, dal Capo della guardia nazionale, Viktor Zolotov e dal responsabile dei Servizi, Sergej Naryshkin. Dall’altra parte della tavolata: Prigozhin insieme ai comandanti della Wagner. In tutto: una trentacinquina di persone. Ma per il resto, bocche cucite.
“La sola cosa che posso dire – ha precisato Peskov, secondo quanto riportato da Reuters – è che il Presidente ha espresso le sue valutazioni sia sulle azioni compiute dalla compagnia (Wagner) durante l’operazione militare speciale (in Ucraina) sia sugli eventi del 24 giugno (il giorno dell’ammutinamento)”. Ha poi aggiunto che Putin ha ascoltato le valutazioni dei singoli comandanti ed offerto loro ulteriori occasioni di impegno e di combattimento. Questi ultimi, a loro volta, hanno ribadito la loro lealtà: di voler continuare a combattere in difesa di Santa madre Russia.
Di più non si conosce. Se non l’ipotesi di un possibile disimpegno (temporaneo?) della Wagner sul fronte ucraino. Né sono noti i numeri delle adesioni dei miliziani alle truppe regolari. E, di conseguenza, i contingenti che, insieme a Prigozhin, dovevano essere presenti in Bielorussia, acquartierati nelle vecchie caserme ereditate dall’Unione Sovietica. Le uniche certezze sono legate al dipanarsi di una vicenda che presenta mille contraddizioni, tutte da chiarire.
Difficile, allora, non concordare con la Cnn che la definisce “surreale”: “Cinque giorni dopo la più grande e violenta minaccia al governo, Putin avrebbe invitato al Cremlino il capo ammutinato e forse una trentina dei suoi comandanti per discutere su come avrebbero potuto funzionare. Ciò significherebbe che 48 ore dopo che aver raccontato ai soldati riuniti all’interno delle mura del Cremlino come egli stesso aveva impedito una ‘guerra civile’, era volato nella città russa meridionale di Derbent per un’opportunità fotografica, ed era tornato, il giorno successivo, per salutare i veri ammutinati all’interno di quelle stesse mura”.
Pura schizofrenia, che mostra, tuttavia, la reale debolezza di Putin. Incerto nel muoversi e nell’agire.
È sempre la Cnn a ricordare l’episodio lontano della cacciata di Mikhail Khodorkovsky. Allora, vent’anni fa, l’uomo più ricco della Russia fu messo su un aereo con la minaccia delle armi e spedito lontano, in modo da poter smantellare le sue ambizioni politiche e il suo impero economico. Se così fosse, l’invasione dell’Ucraina si dimostrerebbe, fin da ora, un boomerang. Potrebbe produrre nel tempo non la caduta di un muro, come avvenne a Berlino, ma il crollo di quel pilastro su cui Putin ha fondato gran parte del suo enorme potere.