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Il senso politico del duello tra Trump e DeSantis. La prospettiva di Graziosi

L’intervento di Stefano Graziosi alla Camera dei Deputati durante la presentazione del report “La candidatura di Ron DeSantis”, a cui, oltre all’autore, hanno partecipato il vicepresidente della Commissione Esteri, Paolo Formentini, e il presidente del Centro Studi Machiavelli, Daniele Scalea

Il mio report sulla figura di Ron DeSantis nasce principalmente per cercare di fare chiarezza e dare delle risposte. A prima vista, non è poi infatti così chiaro in che cosa differiscano Donald Trump e il governatore della Florida: due figure che alla fine sembrano molto simili e che di fatto, in un certo senso, lo sono anche. Ricordiamoci sempre che Donald Trump e Ron DeSantis sono stati strettissimi alleati politici per lungo tempo. DeSantis, quando era deputato alla Camera dei Rappresentanti, ha spalleggiato Trump contro l’inchiesta sul Russiagate del procuratore Robert Mueller. Trump diede invece a DeSantis il suo endorsement, quando quest’ultimo si candidò la prima volta a governatore della Florida. Poi qualcosa si è incrinato soprattutto nel corso dell’ultimo anno e i due sono diventati avversari e acerrimi nemici.

Qual è quindi la questione che divide queste figure? Innanzitutto l’aspetto principale non è tanto di natura ideologico-politica: tutti e due si muovono nel solco del trumpismo come fenomeno politologico che ormai in larga parte è stato accettato dal corpaccione del Partito Repubblicano. Ci sono anche repubblicani antitrumpisti, ma sono oggettivamente pochi e, in questo momento almeno, non hanno seguito popolare. Quindi il trumpismo, inteso come maggiore attenzione alla working class e alle minoranze etniche, è largamente accettato nel Partito Repubblicano. Il tema che si è posto a partire dall’anno scorso è chi dovesse portare avanti questo tipo di ideologia. E quindi l’aspetto principale dello scontro tra DeSantis e Trump è di natura banalmente generazionale. Uno è molto più giovane dell’altro, in più possiamo aggiungere che uno – DeSantis – ha anche meno problemi di natura giudiziaria rispetto all’altro. Il governatore punta pertanto a presentarsi come una risorsa più fresca rispetto a Trump, per quanto non si registri una differenza ideologica così marcata tra i due.

È utile una comparazione per capire meglio. Nel 2016, quando si tennero le primarie presidenziali democratiche che videro Hillary Clinton contro Bernie Sanders, si registrò un forte divario ideologico, perché quei due candidati portavano avanti delle posizioni diametralmente opposte. Questa cosa tra Trump e DeSantis essenzialmente non c’è. Ciò poi non vuol dire che i due la pensino allo stesso modo su tutto. Ci sono dei dossier politici rispetto a cui sono in divergenza. Però il paradigma politico a cui si rifanno è più o meno lo stesso. C’è anche da dire un’altra cosa. Le differenze politiche che si stanno via via manifestando tra Trump e DeSantis sono differenze che nascono anche da questioni strategiche.

Donald Trump è quello che in gergo si chiama il frontrunner: è avanti nei sondaggi ed è a più del 60%. Quindi lui sta già ragionando in un’ottica da candidato presidenziale definitivo: in tal senso è entrato in rotta di collisione con alcune delle frange più conservatrici del Partito Repubblicano, per cercare di accattivarsi il voto dei cosiddetti elettori indipendenti. Faccio degli esempi. Sull’aborto, Trump – pur mantenendosi su una linea pro life – sta esortando il Partito Repubblicano a non assumere delle posizioni troppo nette, per non allontanare il sostegno degli indipendenti. Altro esempio: Trump si sta proponendo da mesi come il baluardo del programma Medicare e del programma Social Security. In quest’ottica, sta accusando DeSantis (e non solo) di voler tagliare la spesa pubblica: sta quindi portando avanti un discorso che, visto con le lenti americane, è molto “di sinistra” ed è un po’ indigesto all’ala reaganiana più ortodossa del Partito Repubblicano. Perché questo? Perché lui ragiona da candidato presidenziale definitivo e sa di aver bisogno, per tornare alla Casa Bianca, della Rust Belt: un’area in cui i colletti blu sono molto presenti. Costoro votano storicamente per i dem, ma si tratta di elettori democratici “open minded”: si tratta, cioè, di gente pragmatica che è disposta a votare un candidato repubblicano, se ritiene che vada incontro alle proprie esigenze.

DeSantis ha un altro tipo di problema. Deve cioè conquistare la nomination, che, almeno al momento, Trump sembra virtualmente avere in pugno. Deve dunque cercare di sottrarre terreno all’ex presidente, attaccandolo da destra. E quindi sta portando avanti delle linee di attacco in cui cerca di dipingere Trump come troppo spostato a sinistra: dalla spesa pubblica alla lotta al crimine. DeSantis notoriamente punta molto sulla critica all’ideologia woke. E qui c’è stato uno scontro interessante tra i due avversari. Mentre il governatore della Florida si propone come il baluardo contro tale ideologia, Trump ha sostenuto che buona parte dell’elettorato non sa neanche che cosa sia il woke. In poche parole, l’ex presidente ha accusato il rivale di essere troppo ideologico: Trump sta, cioè, cercando di presentarsi come il candidato pragmatico, come colui che è in grado di intercettare quei voti trasversali che sono poi necessari per arrivare alla Casa Bianca.

Il grosso rischio per Trump oggi è che perda una fetta di conservatori che lo metta poi eventualmente in crisi alla General Election. Il grosso rischio per DeSantis è che finisca con l’essere identificato come il candidato della destra religiosa. Questo è un rischio perché la storia recente dimostra che tali candidati poi diventano di nicchia, senza essere in grado di conquistare la nomination (Mike Huckabee nel 2008, Rick Santorum nel 2012, Ben Carson nel 2016).


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