In contrasto con l’accusa di vaporosità rivolta al forlanismo, sta la costanza di un pensiero molto netto che ha colto nella dinamica storica della politica italiana la novità del centro-sinistra come esito del confronto tra cattolici e socialisti. Il commento di Giuseppe Fioroni
Abbiamo ancora a disposizione, dopo tanti anni, un pezzo di grande giornalismo che porta la cronaca di un difficile momento di Arnaldo Forlani all’altezza di una limpida rappresentazione circa il carattere e la personalità del più riservato e schivo dei leader storici della Dc. A scriverlo su Repubblica fu Miriam Mafai, a lungo firma prestigiosa del quotidiano romano. L’articolo apparve in coincidenza con l’accusa del pool di Mani Pulite all’allora segretario di Piazza del Gesù e presentava, quasi plasticamente, la fisionomia di un politico irriducibile ai canoni della tradizione democristiana, pur essendone sicuramente una delle espressioni più originali. Nel testo si rinviene una perla del pensiero forlaniano: “Nell’agosto del 1992, nel corso del Consiglio nazionale che doveva eleggere il nuovo segretario, Arnaldo Forlani rispondeva polemicamente a Martinazzoli ricordando che “il cambiamento per il cambiamento è caratteristica del diavolo”.
Era solo una battuta? Non credo. In quelle parole si celava la ritrosia o l’avversione per quello che avremmo imparato a definire con il termine di “nuovismo”, fenomeno deteriore di spavalderia e inconcludenza apparso nel tempo della veloce gestazione della cosiddetta seconda repubblica. È probabile che non valesse come rimprovero a Martinazzoli, di cui riconosceva la capacità di suggestione nella lettura della crisi, anche oltre il campo della politica, bensì come avvisaglia del pericolo che la Dc doveva correre nell’affidarsi allo spontaneismo di una interpretazione finanche ingenua degli eventi. Difficile dire se prevalesse nel suo animo una dose di rassegnazione o di autocontrollo, magari l’una nasceva dall’altro e viceversa. Certo, non credeva alla immortalità della Dc. Con il solito glamour all’inglese, fece osservare in un Consiglio nazionale che millenni prima era finito anche l’impero degli Ittiti — figuriamoci, perciò, se non poteva finire il potere dei democristiani.
Sarebbe interessante capire quale nesso abbia congiunto la formazione giovanile, debitrice dell’ansia riformatrice del dossettismo, alla postura moderata del Forlani della maturità. Il suo percorso, a ben vedere, si snoda lungo il binomio di “conservazione e superamento” che caratterizzerà l’azione di Fanfani rispetto alla lezione di Dossetti. Eppure, anche rispetto all’attivismo di Fanfani l’usuale posatezza di Forlani appare fuori quadro. Ciò nondimeno, in contrasto con l’accusa di vaporosità rivolta al forlanismo, sta la costanza di un pensiero molto netto che ha colto nella dinamica storica della politica italiana la novità del centro-sinistra come esito del confronto tra cattolici e socialisti. Qui sta, a mio avviso, la continuità della politica forlaniana e qui anche il messaggio che lascia per il presente e per il futuro, giacché si tratta, in effetti, della continuità che nel variare delle scelte, sempre oggetto del conflitto che pervade e qualifica la democrazia, ha segnato il concetto di progresso e stabilità – tutt’e due i fattori insieme – nello svolgimento della politica del leader marchigiano.
Alla fine, se oggi volessimo interrogarci seriamente sul lascito politico di Forlani avremmo da compiere un salto all’indietro per farne due in avanti, nella sostanza cercando di capire come la cultura cattolico popolare e democratica, da un lato, e la cultura socialista dall’altro possano reincarnarsi in una nuova progettualità politica, con le necessarie condizioni di sostenibilità organizzativa. Da questo nucleo teorico, se definito con rigore e lungimiranza, può irradiare la complessa ideazione di una nuova politica di centro. È una sfida in cui possiamo ritrovare il gusto di Forlani per un avanzamento, ancorché prudente, sulla via del progresso civile del Paese.