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Perché rimpiangere i tempi andati di Arnaldo Forlani. La riflessione di Cangini

Andrea Cangini ricorda il primo incontro da diciassettenne con Arnaldo Forlani, i tempi in cui il potere politico era un potere reale e chi lo incarnava non ne esibiva l’arroganza, ma lo rappresentava con umanità e discrezione

Di Arnaldo Forlani conservo un’immagine privata, quasi familiare. La prima volta lo vidi con gli occhi di un diciassettenne che una domenica pomeriggio accompagnò il padre giornalista a Pesaro per far visita a un leader politico divenuto uomo di governo e, col tempo, un amico. Nessuno avrebbe detto, quel giorno, che nello spazio di una manciata di anni la prima Repubblica sarebbe naufragata col suo carico umano e politico. Ma quel giorno fu per me rivelatore di una dimensione del potere che nulla aveva a che vedere con i miei pregiudizi di adolescente.

Raggiungemmo Forlani ad una sagra del pesce che percorremmo per intero col passo lento di una processione religiosa continuamente interrotta da una precisa sequenza di soste, di saluti, di brevi e civili conversazioni. Ricordo un uomo sobrio, esenzialmente schivo. Una persona educata e dai modi semplici tipici dei marchigiani che trasmetteva l’idea di un potere mite, equilibrato, quasi paterno e ben radicato nel suo terreno natio. Un potere timido, discreto.

La cena fu a casa sua, ai fornelli c’era la moglie, attorno al tavolo una ristretta rappresentanza di politici locali. Ascoltai in rispettoso silenzio una conversazione fatta per un dieci per cento di civili convenevoli, per un venti per cento di riferimenti storici e per il restante settanta per cento di analisi politica condotta con toni sereni e approccio razionale. Ogni questione veniva affrontata con realismo ed esaurita non appena veniva raggiunto un punto di equilibrio tra le diverse forze, interessi ed ideali in campo. La politica come arte della mediazione. La politica come mezzo per raggiungere il migliore tra i fini possibili. Era così la politica democristiana, era così la Politica tout court.

Una Politica morta ormai da tempo, una morte ufficializzata oggi dal trapasso di Arnaldo Forlani. Non resta dunque, nel ricordare Forlani, che rimpiangere i tempi andati. I tempi in cui il potere politico era un potere reale e chi lo incarnava non ne esibiva l’arroganza, ma lo rappresentava con umanità e discrezione. I tempi in cui i partiti politici erano delle comunità e non solo delle cosche. I tempi in cui la teoria non fu mai sideralmente distante dalla pratica. I tempi in cui le parole avevano un senso e contraddirsi era considerato disonorevole. I tempi in cui le personalità politiche si affermavano attraverso un lungo cursus onorem su basi politiche e non solo mediatiche. I tempi in cui i leader non miravano a distruggere i propri avversari interni, ma a cooptarli per sfruttarne le capacità. I tempi in cui gli uomini di governo avevano uno stile istituzionale e la Politica parlava una lingua propria.

I tempi sono cambiati, e non è un caso che Arnaldo Forlani abbia trascorso in disparte e quasi in silenzio gli ultimi trent’anni della sua vita, ovvero i primi trent’anni dei tempi nuovi.


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