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Germania, è comunque austerity. Una cattiva medicina, secondo Polillo

Mettendosi in riga con un taglio al bilancio di un punto di Pil, Berlino vuole tornare l’ancora di stabilità Ue e ristabilire la coerenza. Ma sarà proprio così?

Dopo il lisciabusso degli industriali, il cancelliere tedesco Olaf Scholz è stato costretto a correre ai ripari. Tagli al bilancio per un importo pari a 31 miliardi di euro. Più o meno un punto di Pil. Si esalta il falco liberale Christian Lindner (dell’Fdp), ministro delle Finanze, da tempo all’attacco contro ogni forma di lassismo finanziario. Che ha chiosato: “Con questo bilancio federale che torna a frenare sul debito, con nessun aumento delle tasse e con investimenti record la Germania è, come ha detto il presidente della Bundesbank, l’ancora di stabilità dell’Unione europea”. Che i “non Frugali” ne prendano debita nota, soprattutto in vista della ventilata riforma delle regole del “Patto di stabilità”.

La lunga battaglia di Lindner aveva un suo perché. La lentezza con cui la Germania stava uscendo dall’emergenza finanziaria del Covid. Nel 2021, le spese pubbliche complessive, al netto degli interessi, erano state pari al 50,7 del Pil. Il valore più alto da tempo immemorabile. Lo scorso anno erano ancora di quasi 5 punti in più rispetto al dato pre-epidemia: il 2019. Nella classifica dei reprobi, di coloro cioè che procedevano troppo lentamente, la Germania, con un differenziale pari a 4,8 punti, veniva dopo soltanto all’Italia, in testa con 7,3 punti, alla Spagna (5,4), a Malta (5,2) e alla Grecia (5).

Un affronto evidente, considerato che la deludente Francia, costretta ad andare a braccetto con l’Italia nella richiesta di una maggiore attenzione ai temi dello sviluppo, aveva chiuso il quadriennio con una differenza pari solo a 2 punti di Pil. Un rigore, si dirà, pagato a caro prezzo. Che aveva scatenato le proteste dei violenti, per la micro riforma pensionistica. Ma che per il ministro delle Finanze tedesco rappresentava, al contrario, una medaglia da appuntarsi sul petto.

Altro elemento di perplessità, in Germania, un debito pubblico che aveva oltrepassato le colonne d’Ercole del Trattato di Maastricht (66,3 per cento del Pil nel 2022) e che rispetto al momento più acuto della pandemia era sceso troppo lentamente. Di soli 2,4 punti. Quando in Italia, solo per fare un esempio, il salto all’indietro era stato di 10,5 punti. Con quale credibilità – questo il rovello del ministro delle Finanze – la Germania poteva fustigare le cicale, se poi non era in grado di mettere ordine a casa propria? Mettendosi in riga, ridiventando “l’ancora di stabilità dell’Unione europea” la coerenza era ristabilita.

Ma sarà proprio così? Oppure certe semplificazioni servono solo per épater la bourgeoisie. Per rispondere occorre fare un piccolo salto. Una buona parte della maggiore spesa tedesca è dovuta agli aiuti di Stato a favore delle proprie industrie. Dopo la decisione della Commissione europea di rispondere all’Inflation Reduction Act (Ira) americano. Quel progetto di 370 miliardi di dollari – ma c’è chi parla di 1.000 – necessari per contenere la supremazia tecnologica cinese, riportare in patria le industrie strategiche e controllare le catene di approvvigionamento dei materiali indispensabili alle nuove produzioni green e digitali.

Gli stanziamenti europei ammonterebbero a 260 miliardi di euro, ma con una gestione fin troppo complicata, sia sul fronte della disponibilità delle risorse che della relativa erogazione. Sta di fatto che già nel 2022, la parte del leone era andata, con circa l’80 per cento delle risorse individuate, alla Germania ed alla Francia. Paesi che avevano una maggiore capacità fiscale. Gli ultimi dati forniti dalla stessa Commissione europea, secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore, sarebbero ancora più squilibrati: “(tra parentesi la percentuale sul totale degli aiuti approvati): 1. Germania – 356 miliardi (53%) 2. Francia – 162 miliardi (24%) 3. Italia – 51 miliardi (7,6%) 4. Danimarca – 24 miliardi (3,6%) 5. Finlandia – 18 miliardi (2,6%) 6. Paesi Bassi – 12 miliardi (1,8%) 7. Polonia – 11 miliardi (1,7%) 8. Spagna – 10 miliardi (1,5%) 9. Ungheria – 6,4 miliardi (1%) 10. Romania – 5,6 miliardi (0,8%)”.

L’onere a carico della finanza pubblica di ciascun Paese dovrebbe essere pari a un 10 per cento dell’investimento. Di conseguenza, in Germania, compenserebbe i tagli appena annunciati. Se così fosse, si tratterebbe di un’operazione intelligente. Si riduce la spesa corrente e si utilizzano le maggiori risorse per una politica di sviluppo. Per di più nei settori portanti della nuova economia green e digitale. Resta, tuttavia, un interrogativo: questa manovra sarà sufficiente per rispondere al malessere degli imprenditori?

Le previsioni più recenti, indicano, per l’anno in corso una caduta del Pil pari allo O,4 per cento. Che la Germania sia in recessione è cosa ormai acclarata. Il problema è allora vedere se una politica di bilancio neutrale dal punto di vista quantitativo (tagli di spesa corrente e aumento di quella in conto capitale) rappresenti la migliore risposta possibile allo stato di crisi. Sembrerebbe, comunque, di no, se si considera che il Fondo monetario internazionale prevede, per l’anno in corso, un avanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti pari al 4,7 per cento del Pil. Riflesso di una domanda interna ancora fin troppo contenuta rispetto al potenziale produttivo esistente.

Si potrebbe obiettare che ragionamenti del genere valgono in un ambiente non caratterizzato dalla forte inflazione che sta colpendo il cuore dell’intero continente. Giusto in teoria, ma con un codicillo. L’osservazione sarebbe valida se fossimo in presenza di un’inflazione da domanda. Ma, in questo caso, la sua origine è da “costi”: riflessi del trasferimento di ricchezza intervenuto a favore dei Paesi produttori di materie prime (soprattutto energetiche) e dei loro fortunati gestori. Da questo shock iniziale l’aumento dei prezzi si è trasferito in tutti gli input conseguenti, con un effetto a cascata. Il relativo flusso può, anzi deve, essere interrotto. Ma il modo più efficiente, non è quello di comprimere ulteriormente la domanda, ma favorire l’offerta, con una politica di sviluppo, che alimenti una maggiore produttività.


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