Una visita quasi perfetta quella del premier alla Casa Bianca. Ha realizzato un salto di qualità e di spessore nei rapporti bilaterali Usa-Italia. Ben riflesso in un comunicato congiunto che non ha precedenti per completezza e articolazione. Il commento dell’ambasciatore Stefano Stefanini, già rappresentante dell’Italia alla Nato e consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica
A memoria d’uomo, le visite di innumerevoli capi di governo italiani a Washington sono sempre state un successo. Altrimenti non si fanno… Quella appena conclusa di Giorgia Meloni non poteva fare eccezione. Non solo non l’ha fatta; è andata oltre. Ha realizzato un salto di qualità e di spessore nei rapporti bilaterali Usa-Italia. Ben riflesso in un comunicato congiunto che non ha precedenti per completezza e articolazione. Parole? Certo, ma parole che collegano le politiche estere dei due Paesi, oltre che sul tradizionale scacchiere euro-atlantico, su un arco internazionale che va dall’Indo-Pacifico all’Africa, dai cambiamenti climatici alle tecnologie emergenti.
Il risultato raggiunto comprende punti importanti per Roma: il fianco Sud della Nato, i riferimenti alla Tunisia, la recente conferenza sulle migrazioni, il “Piano Mattei”, i Balcani occidentali, la tenuta in Italia della conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina nel 2025, la candidatura di Roma per Expo 2030, il fondamentale appoggio alla presidenza italiana del G7 nel 2024.
Sul piatto della bilancia americano ci sono l’Indo-Pacifico e la Cina, compresa l’esplicita menzione di “pace e stabilità nello stretto di Taiwan”. Non cambia di una virgola la posizione italiana (ed europea): “lasciare le cose come stanno” (status quo in gergo diplomatico); c’è una sola Cina ma non deve cercar di cambiare con la forza l’indipendenza di fatto di Taiwan. La novità italiana sta nel dirlo, per di più insieme agli Stati Uniti. Meno appariscente ma ancor più significativo è il pacchetto di politiche di matrice G7 – diversificazione, resilienza delle catene di valore industriali, approvvigionamenti di minerali critici – che ha un comun denominatore di risposta alla sfida della Cina. Sulla quale l’Italia ci impegna a “rafforzare le consultazioni bilaterali e multilaterali”. Sottinteso: a non fare più il cavaliere solitario come nel 2019 con l’adesione alla Via della Seta. Il cui non rinnovo diventa un esito scontato.
Giorgia Meloni non deve cadere nell’errore di prendere alla leggera gli obiettivi comuni che ha sottoscritto e gli impegni che ha preso per realizzarli. Cioé deve fare quello che ha detto di voler fare. Gli americani non amano discorsi a vuoto. Nel loro lessico, specie a quel livello, non trova spazio la captatio benevolentiae. Le molte parole del comunicato congiunto riflettono la misura di quanto l’amministrazione Biden “prenda sul serio” l’Italia e il governo Meloni. Questo differenzia il “successo” della visita a Washington di Giorgia Meloni da quelli di molti (non tutti – vengono a mente Silvio Berlusconi e Mario Draghi) suoi predecessori.
Vi hanno concorso tre circostanze: una geopolitica, una nazionale (italiana) e una personale. Semplificandole: nell’attuale contesto internazionale e atlantico c’è spazio per allargare il respiro della tradizionale relazione privilegiata fra Italia e Stati Uniti; l’Italia ne coglie l’opportunità con la rimarchevole continuità in politica estera degli ultimi due governi – che è quanto partner e alleati sperano, avversari e nemici detestano – cementata soprattutto sul dossier più importante, la guerra russo-ucraina; Giorgia Meloni, pur priva di esperienza internazionale, mostra fin dall’esordio (G20 di Bali) di avere la stoffa di leader sia nell’allacciare rapidamente rapporti con i suoi omologhi, da Ursula von der Leyen a Narendra Modi, sia nel tenere in riga una potenzialmente riottosa coalizione di governo sulle direttrici qualificanti della politica estera. Non consente sguardi indulgenti verso Mosca o strappi euroscettici. Questa la tela di fondo. La premier, la sua squadra diplomatica di Palazzo Chigi e l’ambasciatrice Mariangela Zappia a Washington hanno avuto il merito di massimizzarne le opportunità.
Non tutto era facile a Washington. Joe Biden e Giorgia Meloni appartengono a due famiglie politiche ben diverse. Come titolava il Washington Post, Biden le dava il benvenuto “malgrado i suoi orientamenti di estrema destra”. Le divergenze su questioni come giustizia, accoglienza dei migranti, comunità LGBTQ sono state messe da parte per reciproco pragmatismo, ma anche perché “l’Italia è una democrazia” come ha osservato il coordinatore per la Sicurezza Nazionale John Kirby. Tanto per non scordarlo, nel comunicato congiunto è netto e chiaro il richiamo a (quindi impegno su) democrazia, diritti umani, libertà, trasparenza, inclusività, sostenibilità.
Sul fronte democrazia, in realtà, i rischi più grossi li ha corsi l’America il 6 gennaio del 2021. Alla vigilia di un anno elettorale che potrebbe riproporre una sfida con Donald Trump, l’amministrazione Biden lo sa benissimo. Per Giorgia Meloni si poneva il problema di rafforzare il rapporto con il Presidente in carica – per i prossimi diciassette mesi: un’eternità nel mondo in subbuglio – mantenendo al tempo stesso un approccio bipartisan – il rapporto Italia-Usa travalica Presidenti e governi. A questo è senz’altro servito l’incontro con lo Speaker repubblicano della Camera, Kevin McCarthy.
Discutibile, forse, l’intervista su Fox News con Maria Bartiromo. Scelta appropriata in quanto beniamina degli ambienti italo-americani. Il problema è che Bartiromo aveva sposato a lungo le teorie complottiste sulla vittoria di Trump nelle elezioni del 2020. Pur quando, come racconta Bob Woodward in “Pericolo”, un pilastro repubblicano come Lindsey Graham andava a giocare a golf a Mar-a-Lago per convincere l’ex-Presidente, senza successo, che l’elezione rubata era una pericolosa fantasia.
Intervistatrice repubblicana va benissimo. Complottista un po’ meno. La prossima volta Georgia Meloni e i suoi dovranno pensarci meglio. Ma è stato solo un piccolo passo falso in una visita quasi perfetta.