Skip to main content

La questione giustizia e la stabilità del governo. Scrive Sisci

Il governo del premier Giorgia Meloni ha la grande fortuna di avere un’opposizione molto debole che gira a vuoto e non riesce a mordere in alcuno dei temi davvero scottanti. Ciò nonostante il fatto che vicende giudiziarie di per sé minori ingolfino l’azione di governo, si trascinino e non riescano a essere risolte in maniera pulita, indica una debolezza di fondo. Il commento di Francesco Sisci

La giustizia è stata una questione profondamente divisiva del Parlamento italiano per oltre 30 anni e si annodava per molti versi intorno alla persona di Silvio Berlusconi. Per questo la sua scomparsa poteva fare sperare in una cura di questa antica ferita. Ma non sembra sia il caso, e ciò per vicende in realtà minori.

La questione giustizia nasce con il movimento di Mani pulite che, agli inizi degli anni ’90, contesta pratiche politiche in fieri da anni, il finanziamento dei partiti e il loro rapporto con l’economia e con la mafia. C’è un raccordo storico qui: la fine della guerra fredda, e quindi la fine di spaccature profonde del Paese con un Pci che era stato filosovietico e una Dc filo atlantica. Inoltre c’era il tentativo della mafia di attaccare e occupare il potere costituito. Entrambi i fenomeni avevano una scala internazionale. La fine della guerra fredda creava un nuovo ordine mondiale in cui il mercato poteva esprimersi in piena libertà e quindi non avrebbe avuto bisogno di rapporti corruttivi con la politica.

Inoltre l’attacco al potere delle mafie avveniva negli stessi anni anche in America Latina, in Paesi come la Colombia di Pablo Escobar. La vittoria elettorale di Berlusconi impedì però il successo completo dei giudici di Mani Pulite. Ma in oltre 30 anni Berlusconi, anche per le sue vicende giudiziarie personali, non è riuscito ad avere ragione dei giudici. Nel frattempo, parallelamente al deteriorarsi della salute di Berlusconi, i giudici perdevano popolarità e influenza. La vicenda del magistrato Luca Palamara, espulso dalla magistratura per comportamenti altamente scorretti nella gestione del suo potere, ha contribuito alla caduta della fortuna pubblica delle toghe e ha approfondito tante divisioni al loro interno.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, ex magistrato, avrebbe dovuto sanare allora la situazione. Ma così non sembra sarà, questo forse anche per altre tre vicende giudiziarie che assediano questo governo. Il ministro del Turismo Daniela Santanchè è indagata per frode e bancarotta fraudolenta per la sua azienda; il sottosegretario Andrea Delmastro è sotto torchio per avere rivelato segreti d’ufficio; il presidente del Senato Ignazio La Russa è nell’occhio del ciclone per l’accusa di avere usato il suo ufficio per proteggere il figlio a sua volta accusato di stupro.

La vecchia corruzione della politica, senz’altro sbagliata, comunque si inseriva in un ambito politico: alcuni partiti si muovevano per fermare l’ondata filo sovietica nel Paese e sostenevano per questo di avere bisogno di fondi extra per alimentare la loro attività pubblica. Queste vicende giudiziarie sono avulse da ogni ampio contesto politico. Non hanno a che fare con cambiamenti storici internazionali. Sono questioni puramente personali. Se la Santanchè ha truccato i conti lo ha fatto per suo tornaconto senza rapporti con questo o quel partito. Così La Russa. La storia del figlio è comprensibile da padre, ma non c’entra con la sua parte politica o il ruolo istituzionale di presidente del Senato. La storia di Delmastro poi è forse la più sconcertante perché avrebbe usato informazioni riservate (colloqui registrati segretamente in prigione) per una polemica di parte. Alcuni magistrati forse possono usare queste denunce in modo specioso ma ciò non toglie che le accuse non hanno niente di politico di per sé.

Il governo deve smettere di occuparsi di queste “pendenze” al più presto. Se non lo farà chiaramente ciò danneggerà non solo l’auspicata soluzione della questione giustizia, ma anche la stessa stabilità dell’azione di governo. Non si può sperare di tagliare le unghie ai giudici mentre affondano le dita su questioni che non sono direttamente politiche. Già in passato per vicende più controverse la magistratura è riuscita con successo a mettere in difficoltà altri governi, oggi con questi tre casi potrebbe essere più facile.

Inoltre c’è un problema più profondo alle spalle. Una riforma della giustizia, per il ruolo assunto dai magistrati negli ultimi 30 anni, significa ridefinire le regole della democrazia italiana. Non è una questione di amministrazione più o meno normale. Perciò ci vorrebbe un grande accordo in tutto il Parlamento e un coinvolgimento anche estero, per il ruolo che i giudici hanno nello sviluppo civile ed economico del Paese. In ciò un allineamento con il Presidente della Repubblica è essenziale.

Il governo del premier Giorgia Meloni ha la grande fortuna di avere un’opposizione molto debole che gira a vuoto e non riesce a mordere in alcuno dei temi davvero scottanti. Ciò nonostante il fatto che vicende giudiziarie di per sé minori ingolfino l’azione di governo, si trascinino e non riescano a essere risolte in maniera pulita, indica una debolezza di fondo.



×

Iscriviti alla newsletter