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Frenemies nel Golfo. Riad e Abu Dhabi in fase complicata

Arabi Saudita ed Emirati sono ai ferri corti? Secondo un articolo del Wsj, diventato virale tra gli analisti di Medio Oriente, Abu Dhabi e Riad si sopportano, ma non vanno d’accordo su molti dossier. E le tensioni sono destinate ad aumentare

Negli ultimi due giorni, chi scrive ha ricevuto almeno sei volte – da contatti differenti, italiani e non, appartenenti al mondo del business, dell’accademia, delle istituzioni – il link a un articolo del Wall Street Journal intitolato “The best of frenemies: Saudi Prince clashes with Uae President”. Per chi segue il Medio Oriente, e non solo, quello firmato da Summer Said, Dion Nissembaum, Stephen Kalin e Saleh al-Batati è indubbiamente il pezzo da leggere in questo momento. Raccoglie diversi informazioni importanti e ruota attorno a uno scoop. L’erede al trono saudita, il factotum del regno Mohammed bin Salman, a dicembre scorso, ha riunito i giornalisti locali a Riad per un raro briefing in via ufficiosa in cui ha lanciato un messaggio sorprendente: gli Emirati Arabi Uniti, alleati da decenni con l’Arabia Saudita, ci hanno “pugnalato alle spalle”. Bin Salman giura di fare vedere “cosa sono capace di fare” a Mohammed bin Zayed, presidente degli Uae (noto come MBZ).

Competizione tra leader

I due leader sono a capo dei due più importanti Paesi del Medio Oriente. L’Arabia Saudita è un gigante, ospita i luoghi sacri dell’Islam, è il più grande produttore di petrolio al mondo e intende partecipare attivamente ad alcune delle politiche globali. Gli Emirati sono di dimensione notevolmente minore, ma attivissimi nelle questioni regionali e internazionali, sono un hub tecnologico e finanziario globale al punto che il passaporto emiratino è adesso uno dei più ambiti al mondo (con Dubai che è una meta ambita dai businessman occidentali molto di più di quanto non lo sia Riad). C’è una serie di antipatie personali, c’è una competizione per la leadership – non tanto generale, su cui Riad ha dei vantaggi oggettivi, ma su settori specifici come quelli che riguardano le transizioni economiche verso cui i due Paesi sono orientati per diversificare le loro economie.

“Sebbene collaborino ancora a un certo livello, nessuno dei due sembra stare a suo agio insieme all’altro sullo stesso piedistallo. A conti fatti, non è utile per noi che si scannino a vicenda”, dice una fonte statunitense al Wsj. È evidente che per Washington questo scontro interno tra i due alleati è ciò che di peggiore possa accadere in una regione in cui l’ambizione strategica statunitense è un ritiro controllato, che permetta agli Usa di seguire le dinamiche da remoto affidandone il controllo diretto ad alcuni alleati. Presupposto: quegli alleati devono essere ben allineati e non in scontro. Le beghe tra Riad e Abu Dhabi non sono nuove, ci sono state da tempo frizioni ma sempre controllate. Ora questa volontà di renderle pubbliche preoccupa perché gli effetti possono ricadere su dossier come la guerra in Yemen, il mercato petrolifero, la gestione dei rapporti con l’Iran (e con i suoi proxy), il processo di normalizzazione in atto con Israele.

Cosa divide MBS e MBZ

Tutti per altro dossier in cui i due Paesi hanno interessi non esattamente convergenti. Basta pensare che gli emiratini avevano abbandonato i sauditi nella guerra contro gli Houthi; Abu Dhabi non è d’accordo con la politica di tagli alle produzioni (per rialzare i prezzi) decisa da Riad all’Opec; gli Emirati hanno da tempo lanciato un processo di normalizzazione con Iran e Siria (su cui l’Arabia Saudita ha dovuto rincorrere); il Paese di MBZ, attraverso gli Accordi di Abramo ha costruito rapporti con Gerusalemme, mentre il regno protettore islamico fatica a trovare spazi per farlo (pur in parte volendo). Per quanto rivelato dall’articolo del Wall Street Journal, Riad avrebbe inviato ad Abu Dhabi un elenco di richieste. Se la piccola nazione del Golfo – che il Pentagono definiva anni fa “la piccola Sparta” – non si fosse allineata, MBS ha avvertito di essere pronto ad adottare misure punitive come fatto contro il Qatar nel 2017 (quando Riad guidò il blocco di Paesi che isolò Doha per più di tre anni).

“Sarà peggio di quello che ho fatto con il Qatar”, avrebbe detto il saudita secondo le testimonianze raccolte, mandando un messaggio dal paragone piuttosto esplicito e simbolico. Anche perché le decisioni contro Doha erano state mosse da un’incompatibilità ideologica di fondo: i qatarini non solo avevano rapporti —ai tempi esclusivi e troppo aperti — con il nemico esistenziale, l’Iran (perché condividono un giacimento di gas naturale), ma interpretano una visione dell’Islam politico simile a quello della Fratellanza musulmana, che è considerato un problema altrettanto esistenziale a Riad quanto ad Abu Dhabi. Secondo un diplomatico europeo che parla in via confidenziale, quanto riportato nell’articolo del Wsj corrisponde in buona parte a verità. “Nonostante le smentite reciproche da parte dei due Paesi, le tensioni sembrano non solo esserci, ma destinate a non chiudersi in fretta anche perché i due leader sono in una fase in cui stanno acquisendo maggiore standing internazionale, e ciò gli conferisce sicurezza nelle loro scelte, mosse, azioni e proiezioni”.

Tentativi di ri-ordine?

L’amministrazione Biden ha provato a mediare un incontro lo scorso 7 maggio tra MBS e il fratello minore del presidente emiratino, lo sceicco Tahnoun bin Zayed, un tempo considerato un confidente del principe ereditario saudita. Tahnoun era stato escluso, facendo almeno sei viaggi nel Regno senza riuscire a ottenere un incontro con bin Salman, fino a quando non aveva ottenuto l’aiuto di Washington. Ma ciò nonostante, pare che il saudita abbia detto ai suoi consiglieri che non avrebbero dovuto cambiare alcuna politica nei confronti degli Emirati Arabi Uniti: “Non mi fido più di loro”. Gli effetti di quanto accade sono in parte visibili nella competizione osservata anche in questi giorni, quando nel Golfo sono passati il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, e il primo ministro giapponese, Fumio Kishida. Arabia Saudita ed Emirati hanno fatto a gara per nuovi accordi di cooperazione con Tokyo e di assistenza interessata con Ankara.

Se è vero che da tempo vanno avanti queste frizioni, è altrettanto vero che finora non avevano avuto spazi così espliciti. E allora diventa interessante seguire le mosse successive per comprendere le ragioni che hanno portato i sauditi a esporsi adesso, in un’apparente fase di stabilità e distensione. Non va sottovalutata per esempio la dimensione interna: spesso certe posizioni umorali nel Golfo sono state prese davanti a scricchiolii della tenuta del potere, una prova di forza d’istinto. E dunque, c’è qualcosa che non torna a Riad? Al di là di questo, la mossa più probabilmente si lega alle dinamiche del petrolio. L’Opec, per decisione saudita, ha imposto un limite di tre milioni di barili al giorno alle produzioni emiratine, ma Abu Dhabi progetta da tempo un ampliamento che potrebbe permettergli di raggiungere fino a 5 milioni di barili. Così MBZ avrebbe incisività nel mercato, potendo regolare a piacimento una produzione quasi doppia rispetto all’attuale, ma le riduzioni decise dall’Opec (sotto la pressione di Riad) ne stanno limitando i piani. Speculazione ulteriore: potrebbe esserci un interesse di attori esterni alla regione nel cercare di alterare gli equilibri spingendo su certi punti di frizione?


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