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L’Italia, la Nato e la Cina. Il corsivo di Laura Harth

Nel comunicato del summit degli alleati ci sono parole nette su Pechino, che chiamano in causa Roma e il governo Meloni, in vista della decisione sulla Via della Seta. Ma non solo

Dalle parole ai fatti. Dovrebbe essere quello il motto del governo Meloni dopo l’ottimo comunicato uscito dal summit Nato di Vilnius, in Lituania. Parole più forti che mai dall’Alleanza transatlantica, non solo sull’invasione russa dell’Ucraina, ma anche sul suo partner “senza limiti” nell’attacco frontale all’ordine internazionale basato sulle regole – la Repubblica popolare cinese. Un Paese nelle grinfie di una dittatura feroce che ormai da tempo cerca di imporre il suo modello per una governance mondiale alternativo a quello dei valori universali ribaditi con fermezza dagli alleati Nato. Un Paese che, come sottolinea il comunicato, non ha nessun remore a mettere in campo tutti gli strumenti politici, economici e militari a sua crescente disposizione per sfidare quello stesso ordine che – il regime malgrado – ha permesso alla sua popolazione di uscire dalla povertà più assoluta. Una dittatura che solo l’altro ieri – a 500 giorni esatti dalla guerra unilaterale scatenata da Mosca sul continente europeo – ha dichiarato di voler approfondire ancora il suo partenariato strategico con la Russia di Vladimir Putin per costruire un nuovo ordine mondiale.

Se non bastasse a convincere coloro che ancora credono nella favolosa operazione di disinformatia di una cosiddetta “soluzione cinese” al conflitto in Ucraina, ricordiamo che negli stessi 500 giorni Xi Jinping e la sua corte del Partito comunista cinese non hanno mai condannato l’invasione illegale russa. Mai. Non solo: hanno e continuano a sostenere lo sforzo bellico russo attraverso l’ampio spargimento della disinformazione dentro e fuori dalla Cina, l’aggiramento delle sanzioni imposte dall’alleanza dei Paesi a sostegno dei principi fondamentali della Carte della Nazioni Unite, e – dulcis in fundo – l’aiuto militare diretto.

Ma se dal comunicato Nato emerge un quadro molto chiaro circa la sfida condivisa dal più grande blocco democratico nella storia dell’umanità, esiste ancora grande opacità su un piano di implementazione concreta dei principi elencati e, ancor di più, sullo stato di preparazione allo scenario di un potenziale conflitto intorno a Taiwan. De-risking è la nuova parola d’ordine imposta con successo dall’Unione europea, ma di fatto – salvo rare eccezioni in alcuni campi ben (e troppo?) circoscritti – sembra mancare una strategia complessiva per preparare l’Italia a uno scontro che in termini economici sarebbe apocalittico rispetto alle già asprissime conseguenze della guerra russa. Sebbene sia vero che negli ultimi anni i vari governi italiani hanno fatto saggio uso incrementale del suo Golden Power per mettere al riparo asset strategici, non è altrettanto chiaro qual è il suo apprezzamento dell’esposizione economica italiana a uno shock simile.

La Repubblica popolare cinese da anni sta lavorando sul suo cosiddetto piano di doppia circolazione, che mira a isolare il suo mercato domestico da shock esterni – come le indubbie sanzioni nel caso di una invasione di Taiwan – mentre al contempo cerca di accrescere la sua leva economica esterna per creare dipendenze strategiche e aumentare la sua influenza come ribadisce il comunicato Nato. Precedenti governi italiani sono caduti nella trappola di tale strategia, come evidenziato dalla disastrosa sottoscrizione del memorandum d’intesa sulla Via della Seta, un accordo politico che certamente non ha aiutato a mettere in guardia il mondo imprenditoriale italiano sui rischi dello crescente scontro geopolitico cercato da Pechino.

Il continuo tentennare dell’attuale governo sulla continuazione o meno di quell’accordo certamente non è utile a preparare meglio la società italiana sulle conseguenze di quanto descritto dal summit di Vilnius. Facile immagine le forti pressioni da Pechino o dal mondo imprenditoriale italiano per “non agire in modo che possa far infuriare la Cina”. Serve proprio a quello la famosa leva economica. Ma un governo responsabile, che ha gli occhi ben aperti sulla sfida cinese come emerge dalla sottoscrizione del comunicato Nato, ha l’obbligo di superare le ambiguità del passato. Occorre prepararci al peggio ora per resistere meglio quando arriva. Da chi ha interessi privati diretti in Cina alla società italiana intera.

Lo stesso compito spetta al parlamento, maggioranza e opposizione. Dopo Vilnius, sarebbe più che opportuno che i parlamentari cominciassero a interrogare il governo apertamente non solo sulla questione della Via della Seta, ma anche sull’esposizione economica complessiva del Paese. Quante aziende sono a rischio nel caso di un conflitto e le conseguenti sanzioni? Come sta, se lo sta facendo, il governo comunicando tali rischi con il settore? Quali politiche intende mettere in campo per accrescere la loro comprensione del e resilienza al rischio? Come, sempre se, si stanno preparando le aziende stessi? Per l’interesse dell’Italia: dalle parole ai fatti. Ora.

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