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L’importanza di chiamarsi Oxford. Il commento di Monti

È cruciale che le persone continuino a studiare e ad appassionarsi agli studi umanistici: tali studi esplorano forse il meglio del genere umano, e preparano le persone a poterlo valorizzare, comprendere, divulgare, tramandare. Ma è cruciale che tale necessità non sia posta a discapito della vita degli studenti. Scrive Stefano Monti, partner di Monti&Taft

Una recente ricerca condotta su 9.000 laureati di Oxford ha segnalato che, contrariamente a quanto si sia soliti immaginare, i percorsi di studi in discipline umanistiche hanno un impatto significativamente positivo sulle carriere degli studenti: maggiore capacità critica e maggiore flessibilità pare giochino un ruolo fondamentale nel mondo del lavoro. Inoltre, la ricerca sostiene che i percorsi humanities sviluppino negli studenti la capacità di mettersi in gioco e di cambiare settore e mansione per rispondere ai propri interessi ed incrementare la propria posizione lavorativa.

Potrebbe essere una notizia a suo modo formidabile, perché in un mondo sempre più caratterizzato dallo sviluppo tecnologico e scientifico, apprendere che le discipline umanistiche siano così tanto ricercate sarebbe una notizia veramente importante. C’è però un piccolo tarlo all’interno della metodologia adottata: il campione.

Perché ci piaccia o meno, studiare in alcuni atenei può avere un impatto significativo sulle successive aspettative di carriera. Non a caso, in una classifica volta a stabilire le migliori università al mondo, Oxford occupa la decima posizione. Ma c’è di più, le prime dieci università al mondo sono, rispettivamente, Mit, Stanford, Ucla, Harvard, Sydney, Melbourne, Cambridge, Berkeley, Tsinghua (Pechino) e, appunto, Oxford. Se però andiamo ad approfondire il punteggio che misura i risultati occupazionali dopo la laurea, i risultati sono un po’ differenti:

In pratica, la nostra cara Oxford, che ha rilasciato questa ricerca, pare sia, per questa specifica dimensione, la migliore al mondo a parimerito con il Mit, Stanford, Harvard, e Cambridge. A questi elementi vanno poi aggiunti altre considerazioni: la prima è la lingua inglese, che abilita, sostanzialmente all’ingresso in un mercato del lavoro leggermente più ampio di quello ad esempio raggiungibile attraverso la lingua italiana. E la seconda è lo stato di salute dell’imprenditoria e del lavoro nei Paesi anglofoni, leggermente più dinamici di come lo siano altri scenari.

In pratica, questa ricerca afferma che se studi humanities nella migliore università del mondo per quanto riguarda la reputazione e gli outcome lavorativi, parli inglese, e puoi accedere ad un mercato internazionale costituito da buona parte del mondo, allora, anche se studi humanities trovi facilmente lavoro. Intanto, nel nostro Paese, secondo Almalaurea, coloro che terminano una laurea di primo livello nelle discipline letterarie-umanistiche presentano un tasso di occupazione del 27,5% e un tasso di disoccupazione del 20,8%, contro un campione totale che presenta un tasso di occupazione del 40,6% e un tasso di disoccupazione del 13,2%.

Bisogna probabilmente dirlo, una volta e per tutte, che chi inizia un percorso di studi non lo fa soltanto per il lavoro, ma lo fa anche per arricchire la propria persona. Bisogna ancora dire che se scegli un percorso letterario-umanistico è probabile che avrai più difficoltà nel trovare una professione coerente con il tuo percorso di studi. E bisogna inoltre sottolineare che la professione sarà probabilmente meno stabile, al netto di pubblici impieghi.

Bisogna farlo, perché i ragazzi che si iscrivono all’Università non sono “consumatori” degli Atenei. Gran parte del mondo accademico è sempre pronta a schierarsi contro ogni mercificazione, ma poi ci si ritrova con le Università che, di fatto, vendono un percorso di vita come fosse un prodotto.

È cruciale che le persone continuino a studiare e ad appassionarsi agli studi umanistici: tali studi esplorano forse il meglio del genere umano, e preparano le persone a poterlo valorizzare, comprendere, divulgare, tramandare. Ma è cruciale che tale necessità non sia posta a discapito della vita degli studenti, perché domani saranno delle persone insoddisfatte e frustrate. Dire loro quello che in fondo è un segreto di pulcinella, e vale a dire che studiare humanities a meno che tu non possa permetterti una retta di Oxford e non abbia le competenze per entrarci, può generare delle difficoltà nella ricerca del lavoro, dopo.

Non c’è niente di male: è un rischio che un ragazzo si assume ed è anche uno stimolo a brillare più che può, perché altrimenti sa che sta sprecando il proprio tempo. Ma è un discorso che non trova mai davvero una eco. Meglio parlare del turpiloquio di Sgarbi, meglio accusare i privati di voler rendere l’arte un parco giochi, meglio ricordare com’erano belle, le nostre città d’arte, quando per strada non c’era nessuno per via della pandemia. Magari affermandolo seduti sopra un tronfio perbenismo protetto da uno stipendio pubblico.
O fumando una pipa in tweed, con il caminetto sempre acceso.

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