Zaki, salario minimo, Pnrr, caso Santanchè: non sono molti i successi che la segretaria dem Schlein può vantare nei confronti dei propri iscritti. Il che spiega la reazione di Stefano Bonaccini e la nascita della sua “non corrente”. Il commento di Gianfranco Polillo
Nella pedagogia gramsciana, la formula “pessimismo della ragione – ottimismo della volontà” ha avuto una collocazione centrale. Evocata in numerosi scritti, sia di carattere personale sia politici, voleva essere l’anello di congiunzione tra la “teoria” e la “prassi”. La teoria, ossia la ragione, per avere contezza delle asperità del teatro di scontro. La prassi, la volontà, per non rimanervi prigioniero. Ma avere la forza per volgere a proprio favore le contraddizioni esistenti in quella realtà appena analizzata, grazie all’asetticità, per così dire, della ragione.
Che rimane di quella formula nella strategia del partito, il Partito democratico, che almeno in teoria ne dovrebbe essere se non propria diretta, almeno importante, derivazione? Ben poco, nonostante gli sforzi di Piero Sansonetti che, dalle pagine dell’Unità rinnovata, prega perché avvenga il miracolo di una sorta di laica, sebbene improbabile, transustanziazione. Improbabile per l’enorme mole di acqua passata sotto quei ponti, destinata a cancellare gran parte della memoria storica di quelle origini, in un’amalgama, indubbiamente non riuscito, ma destinato comunque a provocare un grande reset.
Da questo punto di vista, l’ultima intervista di Elly Schlein al Corriere della Sera è indicativa. La prima critica rivolta contro il governo riguardava il caso di Patrick Zaki. A Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, e Antonio Tajani, ministro degli Esteri, “chiedo di riferire in Aula”, aveva tuonato. Battano un colpo e si attivino per ottenere la liberazione e la grazia”. Più che battere un colpo, il governo ha portato a casa, un paio di giorni fa, il ricercatore egiziano, che lavora presso l’università di Bologna. Considerato che l’intervista era del 18 giugno e la vicenda Zaki ha avuto inizio nel febbraio 2020, la scelta di andare a testa bassa contro il governo non è stata certo delle migliori.
Altro cavallo, ma forse sarebbe meglio dire somaro, di battaglia: il salario minimo. “È inaccettabile che la destra volti la faccia da un’altra parte”, la nuova levata di scudi. “Il salario minimo è una misura su cui le opposizioni hanno unito le forze per chiedere che non si scenda sotto i 9 euro l’ora, altrimenti è sfruttamento e non può essere legale”. Troppo facile osservare che questo presunto scandalo è stato ben tollerato, anno dopo anno, dalla sinistra. E paradossalmente è stato giusto così. Nella realtà italiana, così diversa rispetto a quei Paesi che hanno inserito l’istituto nel proprio ordinamento, le differenziazioni socio-economiche sono rilevanti. Sul fronte della produzione di beni prevale la piccola impresa e solo qualche grande gruppo industriale. Nel settore dei servizi o delle professioni la distribuzione è ancora più divaricata. Grandi patrimoni da un lato, piccole se non piccolissime fortune, dall’altro.
Queste divaricazioni, unite al maggior potere sindacale, sono state all’origine del “modello italiano” tutto centrato sulla contrattazione, piuttosto che sulla rigidità della norma. È stata, infatti, quella presenza, così diffusa ed articolata, che ha portato a compensi differenziati che hanno consentito ai singoli “produttori – salariati” (Bruno Trentin) di poter meglio beneficiare dei guadagni di produttività. In alcuni comparti, tipico l’esempio dei rider, si riscontra un ritardo oggettivo. Ma ciò è anche conseguenza della bassa produttività dell’intero comparto. Che rende difficile, per quanto sia auspicabile, la corresponsione di un salario dignitoso.
Ne deriva che non basta agitare il bandierone della protesta in difesa dei “diritti di tre milioni e mezzo di lavoratrici e lavoratori che, dai dati Istat, sono poveri anche se lavorano”. Sempre Schlein che parla. Due i possibili rischi: un susseguirsi di fallimenti nei settori più deboli per l’impossibilità di garantire lo stesso servizio ai costi di mercato. Oppure la richiesta di sussidi da parte dello Stato, per compensare il gap “salari – produttività”. Carlo Cottarelli dixit. In entrambi i casi il meglio che è nemico del bene. Ma da quest’orecchio Schlein non vuol sentire. Al punto che, dimenticando quanto avvenne per la scala mobile ed il decreto di San Valentino, ipotizza il ricorso ad un eventuale referendum popolare.
Sui ritardi, che indubbiamente si verificano sul Pnrr, è per lo meno ingeneroso attribuire tutte le colpe a questo governo. Si dimenticano, con troppa facilità, i precedenti che datano fin dai tempi in cui il Tesoro era presidiato da Carlo Azeglio Ciampi, la cui preoccupazione fondamentale era quella di non perdere i fondi che l’Europa aveva messo a disposizione dell’Italia, nel capitolo “Fondi strutturali”. Un evidente caso di “falsa coscienza” che spinge la segretaria del Partito democratico a far ricorso ad una clamorosa bugia nel denunciare. “Non arrivano 500 milioni per alloggi studenti, il Pd è al loro fianco”. Quando invece si tratta soltanto di una rimodulazione temporale dei 35 miliardi che saranno comunque erogati entro la fine dell’anno.
E che dire, poi, del caso di Daniela Santanchè? Le accuse di aver mentito in Parlamento, sull’informazione di garanzia non hanno retto alla prova dei fatti, visto che quelle comunicazioni sono state notificate giorni dopo il suo intervento nell’Aula del Senato. Per il resto si vedrà. Non dimenticando tuttavia che l’intervento della magistratura non ha come oggetto fattispecie in qualche modo riconducibili all’area della discrezionalità amministrativa, ma episodi attinenti la sfera personale del ministro. Quando questi non aveva ancora alcuna responsabilità di governo.
Insomma, a mo’ di prima conclusione, non sono molti i successi che Schlein può vantare nei confronti dei propri iscritti. Il che spiega la reazione di Stefano Bonaccini e la nascita della sua “non corrente” (Energia popolare), che non sarà certo una fronda. Come si sono affrettati a precisare, ma nemmeno il luogo di un’asettica accademia. Del resto in una situazione così difficile, come quella italiana, doveva essere il pessimismo della ragione a prevalere. Per non trasformare lo stesso ottimismo della volontà in una cieca, quanto inutile, passione.