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I problemi di Putin e gli eccessi di Zelensky. Il conflitto visto da Jean

Nonostante le speranze e le belle parole di pace e fraternità, i rapporti geopolitici sono quelli che sono. Chi invoca la trattativa deve precisare che essa è sempre fondata su un “do ut des”. Certamente una guerra che non sia una “Delenda Carthago”, si conclude sempre con un negoziato… L’analisi del generale Carlo Jean

Le prospettive di fine del conflitto in Ucraina sono quanto meno incerte, soprattutto dopo le difficoltà incontrate dalla controffensiva ucraina, invischiata con rilevanti perdite dai campi minati posti a protezione delle successive linee di difesa russe, sia a Est che a Sud. Esse sono state sapientemente organizzate dal gen. Surovikin, comandante delle forze dell’“operazione militare speciale” in Ucraina, prima di essere sostituito dal capo di stato maggiore gen. Gerasimov, e scomparso dalla scena dopo il tentato ammutinamento della Wagner del 24 giugno scorso.

La guerra resta una d’attrito. Il fuoco a distanza – di artiglieria, lanciarazzi multipli e, da parte russa, aerei – domina il campo di battaglia. È evidente la volontà di entrambi i contendenti di limitare le perdite. Per gli ucraini è necessario farlo anche in vista della ricostruzione.

Per i russi, per evitare reazioni negative dell’opinione pubblica, simili a quelle avvenute per l’Afghanistan, in cui le perdite dell’Armata Rossa sono state molto inferiori a quelle subite in Ucraina. Forse la situazione muterà, poiché il comandante russo Gerasimov, grande studioso di Clausewitz (la fama di teorico della “guerra ibrida” è ingiustificata), sta ammassando un numero consistente di circa 100.000 soldati con un migliaio di carri e altrettanti pezzi d’artiglieria nel Nord del Donbass, non si sa se per puntare su Kharkiv o se per alleggerire la pressione ucraina nei settori più caldi della controffensiva.

Continuano, poi, i bombardamenti sia di obiettivi militari sia delle città ucraine, mentre più frequenti drones di fabbricazione ucraina colpiscono Mosca e vengono definiti, senza arrossire, atti terroristici da parte ucraina. Dall’accusa di crimini di guerra non è esente lo stesso Putin. Per timore di essere arrestato per mandato del Tribunale Internazionale dell’Aja, ha rinunciato a partecipare in Sud Africa alla riunione del Brics.

Putin e Zelensky hanno poi i loro problemi. Per il primo sono sia interni che esterni. All’interno, è criticato per la sua decisione fallimentare di aggredire l’Ucraina, non solo dagli oligarchi, ma anche dai nazionalisti. Secondo l’Istituto di sondaggi Levada, quasi il 50% degli intervistati era a favore di Prigozhin. L’opposizione è comunque divisa: quindi non in grado di abbatterlo, anche perché in Russia manca un’istituzione, come era il Politburo nell’Urss, che abbia il potere legale di dimettere un Presidente, come accadde per Kruscev.

Inoltre, il sostegno della Cina è sempre più incerto e umiliante. Molti anche in Russia pensano che Putin stia riducendo il Paese a junior partner di Pechino.

Infine, il Cremlino non è sicuro di poter contare sul sostegno dell’opinione pubblica, in caso di aumento delle perdite o di nuova mobilitazione. Putin non è riuscito a trasformare l’aggressione in Ucraina in una guerra di popolo. Non può accettare negoziati, quindi compromessi, sugli obiettivi perseguiti. Ormai non sono in gioco solo loro, ma anche il suo potere politico e, se gli andasse male, la sua pelle. È comunque indebolito. Lo dimostra il fatto che non si sta comportando con dissidenti e rivoltosi nel solito modo con cui agiscono gli autori seri: cioè fucilandoli nel caso migliore. Gran parte dell’Esercito tace. Forse sta aspettando di vedere come si mettono le cose non tanto sul campo di battaglia quanto al Cremlino.

Anche Zelensky ha i suoi problemi, a parte quelli delle operazioni militari. Ha fatto troppe promesse sulla controffensiva. È troppo presente nei media occidentali, stancando le opinioni pubbliche dei suoi sostenitori. Sta prendendo iniziative troppo autonome per i gusti americani. Non per nulla, Biden sta riponendo in discussione la concessione all’Ucraina degli Atacms (con 300 km di gittata e peso di 2 ton) affermando che a Kyiv per ora bastano gli Storm Shadow e gli Scalp britannici e francesi, con gittata di poco superiore ai 200 km. Ma il problema maggiore è la tenuta della coalizione che l’appoggia. Deve realizzare qualche successo significativo, soprattutto prima del vivo della campagna presidenziale americana e la possibilità che Trump, non contento dei guai che ha già combinato, cerchi un accordo anticinese a ogni costo con la Russia.

Il problema principale che inizia a profilarsi è quello delle garanzie di sicurezza dell’Ucraina, che verosimilmente non potrà essere risolto senza un accordo su quelle da garantire a Mosca. Esso è essenziale per la sostenibilità, quindi per le stesse possibilità di un accordo di pace. Contrariamente a quanto molti ritengono, accordi simili a quello della Corea o a quello della Bosnia-Erzegovina sono impraticabili. Quello della Corea perché richiederebbe uno squilibrio di forze a favore della parte vittima del conflitto. L’Ucraina in caso di una soluzione tipo Corea dovrebbe acquisire un’autonomia strategica dotandosi anche di armi nucleari, come Israele, oppure non solo entrare a far parte della Nato, ma avere forze Nato permanenti dislocate sul suo territorio (in violazione a quanto stabilito dal Founding Act, basato sugli accordi Solana-Primakov del 1957). In caso di un accordo del tipo “Bosnia”, sia Russia che Ucraina dovrebbero accettare l’autorità di un Contact Group internazionale. L’appello alla semplice neutralità garantita internazionalmente non sarebbe mai accettata da Kyiv, dopo le violazioni dei negoziati che la garantivano a Budapest nel 1994 e nel Trattato di amicizia e Partenariato con Mosca del 1997.

Nonostante le speranze e le belle parole di pace e fraternità, i rapporti geopolitici sono quelli che sono. Chi invoca la trattativa deve precisare che essa è sempre fondata su un “do ut des”. Certamente una guerra che non sia una “Delenda Carthago”, si conclude sempre con un negoziato. Chi lo propone, e non vuole solo far chiacchiere, dovrebbe precisare che cosa dovrebbero offrire, sia l’Ucraina che la Russia e che cosa offrire (aiuti, soldi, ecc.) per facilitare la rispettiva offerta. Il cardinale Zuppi, che sa che cosa è una guerra e quali ne sono i meccanismi, ne è certamente consapevole. Non ha certo sentito la Nato abbaiare alle frontiere della Russia. La sua missione non è quella di mediare, fatto che con difficoltà potrebbero forse fare gli Usa e la Cina se si mettessero d’accordo, ma di salvaguardare la credibilità del “piano segreto” del Papa, che giornali anglosassoni hanno definito tanto segreto da essere ignorato anche da lui. Lo ha ridimensionato a iniziativa umanitaria (bambini rapiti, scambio di feriti e prigionieri, ecc.), facilitatrice di contatti e di uno spirito di collaborazione tale da agevolare i veri negoziati di pace, i quali – come la storia insegna – non escludono la continuazione del conflitto.


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