Lo smart working è senz’altro uno dei lasciti più rilevanti della pandemia da Covid-19. Nel suo nuovo libro il professor Francesco Maria Spanò ne fornisce una disamina accurata. “Deve essere inteso come uno strumento che ci è stato offerto dal progresso scientifico e va inquadrato nel più vasto quadro delle trasformazioni legate a quest’ultimo”
Al Circolo Esteri di Roma si è svolta martedì 4 luglio la presentazione del volume “Lo Smart Working tra la libertà degli antichi e quella dei moderni” (Rubbettino), curato dal professore Francesco Maria Spanò. Il parterre, che oltre a quella dell’autore ha visto la partecipazione dei giornalisti Susanna Bonini Verola e Claudio Tucci, ha sviscerato le varie sezioni che compongono il complesso fenomeno dello smart working. Al lato della presentazione, il professor Spanò si è reso disponibile per rispondere a qualche domanda da parte di Formiche.net.
Nel XIX secolo Emile Durkheim coniò la locuzione di “Divisione Sociale del Lavoro”. Secondo lei lo smart working può portare a trasformazioni, anche conflittuali, nella società, e se si attraverso quali canali?
Sicuramente si. Lo smart working è anche un fenomeno sociale, va al di là del rapporto di lavoro tout-court, e di conseguenza può essere causa di frattura interna alla società. Aziende che lo applicano o meno, come differenza di applicazione tra Nord e Sud, o ancora differenziazione interne tra figure del personale che possono usufruire dello smart-working e figure che invece non possono. Oggi la paura è che possa delinearsi un grande solco tra le grandi aziende capaci di applicarlo e le piccole aziende che invece non he hanno la possibilità, con in mezzo la Pubblica Amministrazione che lo applica a macchia di leopardo. Se non si trovano giusti contrappesi o adeguate forme di compensazione, c’è un rischio concreto che lo smart-working possa divenire fonte di nuove diseguaglianze.
Altra locuzione filosofica, stavolta di Adam Smith: la Mano Invisibile. Lasciare la guida di queste trasformazioni al settore privato può essere in qualche modo limitante?
Dipende. La mano invisibile può essere interpretata anche come un atto di indirizzo da parte dello Stato, senza che questo intervento si strutturi in forme più decise. Qualora si verificassero fenomeni di anarchismo o di lassez-faire, un simile intervento più che limitante sarebbe addirittura auspicabile. Altri esponenti dello stesso filone di pensiero di Smith, come Benjamin Costant, non nascondevano il pensiero che una libertà troppo accentuata potesse divenire addirittura pericolosa. La Rivoluzione Francese aveva avuto un forte impatto su questi pensatori, che avevano visto con i propri occhi le conseguenze di un eccesso di libertà. E anche lo smart-working deve essere in qualche modo calmierato, proprio per evitare il verificarsi di nuovi disequilibri.
Fa riferimento a qualche caso in particolare?
In seguito all’introduzione del fenomeno dello smart working, alcuni quartieri ricchi e pulsanti di New York e di San Francisco si sono ritrovati improvvisamente ad essere vuoti e malfamati. Una conseguenza tutt’altro che desiderabile.
Così però si rischia di connotare lo smart working come un fenomeno prevalentemente negativo…
Lo smart working è frutto dell’evoluzione tecnologica, senza di essa non avremmo potuto neanche concepirlo: esso deve essere inteso come uno strumento che ci è stato offerto dal progresso scientifico e va inquadrato nel più vasto quadro delle trasformazioni legate a quest’ultimo. Possiamo definirlo come una nuova libertà che abbiamo acquisito grazie al mutare delle necessità e del contesto elettronico-meccanico, ma anche sociale ed economico. Personalmente mi piace definirla come una libertà post-moderna. E anche come una libertà acquisita: non è necessaria una “rivoluzione” per ottenerla, questa “rivoluzione silenziosa” c’è già stata, ed è stata la pandemia da coronavirus. Questo fa sì che lo smart working venga concepito come un fatto positivo. E non soltanto dai lavoratori, ma persino da alcuni datori di lavoro, che sono quelli che ancora lo concedono.
Dalla filosofia alla storia: all’indomani della caduta di Napoleone (al netto dei 100 giorni pre-Waterloo) si apre il Congresso di Vienna. L’esperienza rivoluzionaria cede il passo alla Restaurazione. Anche la rivoluzione dello smart working sta vivendo la sua Restaurazione?
Sì, e ce lo dimostrano i dati. Dai 9 milioni di persone in smart working durante il periodo pandemico adesso siamo ritornati ad una cifra che oscilla tra i 2,5 e i 3 milioni. Ma nei secoli ogni rivoluzione ha lasciato il segno, malgrado i tentativi di riportare indietro le lancette della storia. Esiste già una massa importante, che fungerà inevitabilmente da base per una trasformazione più ampia. Questa trasformazione non deve essere negata, ma bisogna anzi cavalcarla, valorizzandone gli aspetti positivi, per evitare che alcuni ne possano godere mentre altri rimangano totalmente esclusi da questo cambiamento. Uno scenario da non escludere qualora si lasciasse esclusivamente al libero mercato il ruolo di “regolatore”.
All’interno di questo trend quasi globale, come si posiziona il nostro paese?
Sul lato privatistico, l’Italia è senz’altro all’altezza di qualsiasi altro stato utilizzato come termine di paragone, in Europa e fuori. Banca Intesa è solo il più noto dei tanti esempi. Al contrario il settore pubblico è molto in ritardo, non solo per quanto riguarda l’applicazione pratica da parte dei gangli della Pubblica Amministrazione, ma anche nell’adozione del giusto approccio allo smart working, che esula dalla dimensione esclusivamente professionale e arriva a toccare molti altri aspetti della nostra vita. Al di fuori di ogni comparazione, è doveroso, e anche bello, evidenziare fenomeni esclusivamente nostrani: grazie allo smart working, stiamo assistendo ad un ripopolamento dei piccoli borghi che stavano rischiando l’abbandono.