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Salario minimo, una battaglia anti Meloni. Il corsivo di Cazzola

Ai sostenitori della misura non interessa conseguire l’obiettivo di introdurre in Italia una forma di salario minimo, ma di trovare un argomento in più (ben più solido e concreto di quelli usati fino adesso) per accusare il governo e la maggioranza di essere contro i poveri e insensibili al grido di dolore di alcuni milioni di cittadini

È impressionante lo scatenamento di un populismo di nuovo conio che accompagna e foraggia lo scontra tra maggioranza e opposizioni sul salario minimo legale, dopo la presentazione di un progetto di legge alla Camera che ha raccolto il sostegno di tutte le minoranze (salvo Italia viva), della Cgil e della Uil.

Ovviamente i quotidiani militanti fanno il loro mestiere giacché per loro la politica che presta attenzione ai conti pubblici va respinta a prescindere perché richiama l’odiata austerità. Per quanto riguarda i talk show non ancora chiusi per ferie, si è aperto un pranzo di nozze. Ben pochi altri argomenti – come la denuncia di salari inadeguati per milioni di lavoratori – potrebbero essere in sintonia che la linea editoriale di un’Italia in mutande, dove i lavoratori non sono solo precari e sottopagati, ma costretti a lavorare sotto il solleone e a temperature insopportabili. Che cosa c’è di meglio di una crociata su questi temi? I quotidiani che l’hanno giurata al governo Meloni e che fino a ora hanno potuto soltanto andare a caccia di residui di neo-fascismo sopravvissuti nella maggioranza, hanno capito che nella proposta di legge c’era del beef.

In primo luogo, nessuno si sarebbe mai aspettato che pochi giorni dopo aver risalito in disordine e senza speranze le valli del Molise, dopo la sonora sconfitta dei “quattro amici al bar” nelle elezioni regionali, quegli stessi partiti riuscissero a trovare un’intesa su di un tema serio (come lo Smic), di cui si discute da anni, più in Europa che in Italia, in presenza di una direttiva dell’Unione, con il pretesto che 21 Paesi su 27 hanno adottato quella misura e che da noi interesserebbe alcuni milioni di lavoratori.

Si sa, la forza del populismo sta nella capacità di semplificare i problemi. È facile ottenere il consenso quando la spiegazione la capirebbe anche un bambino. In Italia ci sono circa tre milioni di lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria, inferiore a 9 euro lordi (sull’aggettivo lordo o netto permangono ambiguità). È un’emergenza a cui occorre provvedere al più presto. E ci deve pensare lo Stato: il pdl prevede infatti che sia costituito nella legge di bilancio un fondo che aiuti le imprese ad adeguare i salari  al minimo legale. La maggioranza è contraria con argomenti non infondati, recepiti da una risoluzione approvata dalla Camera nel dicembre scorso. Ma si finisce sempre, come nel gioco dell’oca, al punto di partenza. Le semplificazioni del populismo fanno aggio sui ragionamenti seri e complessi; per cui diventa conveniente usare la forza dei numeri, come è avvenuto con reddito di cittadinanza (RdC) e con la mancata proroga del bonus accise.

Poi l’intendenza seguirà. Anche perché le opposizioni hanno scelto una procedura discutibile. Avvalendosi del diritto di mettere all’ordine del giorno un pdl di loro iniziativa, hanno esercitato questa opzione sulla loro proposta sul salario minimo, che poi in commissione Lavoro è divenuta il testo base. A quel punto la maggioranza ha presentato un emendamento soppressivo, che, dopo lo slittare dei tempi dovuto al boicottaggio delle minoranze, è calandarizzato per il voto martedì prossimo. È nell’ordine normale della dialettica politica che una maggioranza – contraria al salario minimo e coperta in questa posizione da una risoluzione approvata dalla Camera nel dicembre scorso che impegnava il governo “a raggiungere l’obiettivo della tutela dei diritti dei lavoratori non con l’introduzione del salario minimo, ma attraverso altre  iniziative, poiché con la definizione per legge di un salario minimo  si sarebbe messa a rischio il sistema della contrattazione collettiva, con il serio pericolo di favorire la tendenza alla diminuzione delle ore lavorate, l’aumento del lavoro nero, l’incremento della disoccupazione e l’aumento dei contratti di lavoro irregolare e dei contratti pirata” – non si sarebbe mai fatto imporre una legge voluta dalle opposizioni.

Ci si aspettava quindi che la vicenda iniziata all’inizio di luglio terminasse il 25 dello stesso mese, in concomitanza con l’anniversario della seduta del Gran Consiglio del fascismo che sfiduciò il Duce. La  maggioranza, tuttavia, non ha capito fino in fondo la manovra delle opposizioni. Ai quattro cavalieri dell’Apocalisse non interessa conseguire l’obiettivo di introdurre in Italia una forma di salario minimo, ma di trovare un argomento in più (ben più solido e concreto di quelli usati fino adesso) per accusare il governo e la maggioranza di essere contro i poveri e insensibili al grido di dolore di alcuni milioni di cittadini. Contemporaneamente gli “amici degli amici” stanno suonando gli ottoni e la grancassa per mettere in difficoltà il governo (che su questi temi non è certo un cuor di leone). In Italia (a lato del dibattito in Europa) di salario o compenso minimo si parla da più di un decennio. La misura era prevista nella legge n. 92 del 2012 (la riforma Fornero del mercato del lavoro). Il tema era affrontato nell’unica delega contenuta nel Jobs Act (2014-2015) che non ebbe attuazione proprio per le perplessità dei sindacati, i quali temevano che il salario minimo sottraesse spazi alla contrattazione nazionale di categoria: la stessa tesi, non infondata, che oggi sostiene la maggioranza. Ma tutto finisce in politica.

Come ha scritto Francesco Nespoli su Adapt, “E se è vero che la proposta di legge firmata dalle opposizioni non è stata comunicata mirando ad intavolare un confronto, bensì come “misura bandiera”, la scelta speculare del governo di sopprimere l‘intera proposta per emendamento presta ora il fianco a una narrazione delle più stereotipate (come quelle a cui stiamo assistendo, ndr) e rischia di innescare una spirale al rialzo per le tensioni in campo”. Il punto di partenza del nuovo capitolo della vicenda salario minimo, prosegue Nespoli, è una proposta che, come molti altri capitoli del tema lavoro, “viene comunicata facendo ricorso a semplificazioni più o meno strumentali condotte non secondo il principio di realtà (e dunque di complessità), ma secondo il ‘principio di principio’”. In questo caso specifico però, a differenza di dibattiti già visti, la comunicazione politica dei proponenti ha teso a nascondere o trascurare, incalza l’autore, gli effetti paradossali della misura.

Effetti cioè che potrebbero andare a colpire non l’economia e la società nel suo complesso o le “controparti”, ma proprio coloro che dovrebbero essere i diretti beneficiari della garanzie legale (ossia i lavoratori poveri), nonché i salari medi e le organizzazioni sindacali storicamente dedicate alla tutela dei lavoratori (e tendenzialmente considerate un valore nella prospettiva culturale dei firmatari della proposta).

Invece sono stati riproposti i grandi numeri sensazionali, e sono stati prefigurati a più riprese effetti certi della proposta presentata. Elementi questi che vanno considerati come una spia di una semplificazione grossolana. Si va dall’insistenza sulla confusione e incertezza che sarebbe generata dai fantomatici 1000 contratti collettivi depositati al CNEL fino alle stime compiaciute sui supposti 3 milioni di lavoratori (addirittura 4 secondo Giuseppe Conte) che, come per automatismo, vedrebbero aumentate le proprie retribuzioni grazie al salario minimo legale.

Per sostenere questo scenario è stata utilizzata per esempio l’Audizione presentata da Istat, che specifica però di non tener conto “dei cambiamenti che l’introduzione del salario minimo potrebbe generare sulla domanda e sull’offerta di lavoro”. Non circolano invece simulazioni di alcun tipo sui potenziali effetti negativi, ma nemmeno esemplificazioni dei vari comportamenti che gli attori in campo potrebbero adottare. E non è nemmeno stato presentato uno studio diretto a individuare il livello teorico a cui fissare il quantum del minimo legale.

Sono considerazioni lucide e condivisibili che denunciano la scarsa serietà con cui vengono affrontate questioni di così grande rilievo. Per battere l’avversario è consentito sconvolgere il mercato del lavoro, l’assetto delle relazioni industriali e indebolire la contrattazione collettiva. Con il RdC si sarebbe dovuto abolire la povertà, con lo smic si abolirebbe il lavoro povero. Iddio protegga questo Paese da se stesso. 

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