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Il salario minimo? No grazie! Stiamo con i lavoratori. La versione di Polillo

Il combinato disposto tra un salario minimo fisso ed una produttività che non cresce darebbe come risultato una più forte persistenza del processo inflazionistico. A meno che… Il commento di Gianfranco Polillo

Una sinistra alla difficile ricerca di un’identità da condividere sembra aver trovato nel “salario minimo” la sua pietra filosofale. Difficile darle torto, se lo stesso Ignazio Visco, prima di abbandonare lo scranno più alto di Palazzo Koch, ha dovuto fornire una serie di dati che non fanno certo onore al Bel Paese. “Nel 2022, con la ripresa sostenuta della domanda di lavoro, – ha osservato il governatore – è cresciuta notevolmente la trasformazione di contratti temporanei in permanenti. In molti casi, però, il lavoro a termine si associa a condizioni di precarietà molto prolungate; la quota di giovani che dopo cinque anni ancora si trova in condizioni di impiego a tempo determinato resta prossima al 20 per cento. Troppi, non solo tra i giovani, non hanno un’occupazione regolare o, pur avendola, non si vedono riconosciute condizioni contrattuali adeguate; come negli altri principali Paesi, l’introduzione di un salario minimo, definito con il necessario equilibrio, può rispondere a non trascurabili esigenze di giustizia sociale”.

Ed allora? Parafrasando un celebre canto anonimo delle mondine si potrebbe dire “se nove euro” – questa la richiesta del salario minimo – vi sembran troppe “provare voi a lavorar”. Capirete allora la differenza tra il lavorare ed il comandare. Fin troppo giusto. Degno di un Paese civile. Del resto – ci informa il Fatto quotidiano – “in 21 Paesi Ue su 27 è presente una legge sul salario minimo.” In sei Paesi europei “il tetto è superiore: in Lussemburgo è pari a 13,37 euro l’ora, in Germania è stato alzato a 12 euro, in Francia, Belgio, Paesi Bassi e Irlanda supera gli 11 euro. Segue la Spagna, dove a febbraio il governo Sanchez ha alzato il salario minimo dell’8% portandolo da 1.000 a 1.080 euro su 14 mensilità. Una cifra che si traduce in circa 7,8 euro l’ora.” Sembrerebbe quindi che la proposta sia più che ragionevole per cui il governo non avrebbe alibi per respingerlo.

Ed invece le perplessità sono diffuse. Lo sono sul piano politico. Troppo evidente il collegamento con la ricerca affannosa di un “campo largo” in cui far crescere il fiore dell’unità delle sinistre. Giuseppe Conte il primo dissenziente. Poi si aggiungono quelle delle varie componenti sindacali. Intervenire con legge su una materia tipica della contrattazione rischia di creare un pericoloso precedente. Destinato, comunque, a limitare lo spazio sindacale. Meglio sarebbe allora ricorrere ad un accordo quadro. Ma qui si apre un ulteriore capitolo: quello della rappresentanza. Fin quando non sarà deciso chi rappresenta che cosa, ogni decisione erga omnes diventa un’inafferrabile chimera.

Fin qui il perimetro politico – sindacale. È sufficiente per dirimere il problema? Ne dubitiamo. Il confronto con la Germania può essere un punto di partenza, considerate le affinità tra i due Paesi e le rispettive vocazioni industriali. Nove euro, contro dodici. Un quarto in meno. Un’evidente moderazione. Se la sottostante produttività fosse la stessa. Ma è così? Le statistiche sulla produttività sono materiale difficile da maneggiare. Troppi fattori, non solo economici, pesano sulla relativa determinazione. Si pensi solo alla cosiddetta “produttività totale dei fattori” in cui la fatica umana c’entra fino ad un certo punto, essendo preminente il peso dell’organizzazione sociale complessiva.

Senza voler entrare in quel mondo esoterico, non possiamo che prendere per buono gli studi del Centro studi di Confindustria (giugno 2023). Tanto più che lo stesso Carlo Bonomi, che è il presidente della Confederazione, non sembra essere contrario, in modo pregiudiziale, all’ipotesi di salario minimo. Nell’’ultimo ventennio (2000 – 2020) – è riportato nel report – “la crescita dei salari reali è stata simile a quella registrata in Francia e superiore a quella di Germania e Spagna. Ma in questi paesi la produttività del lavoro è cresciuta ben più che in Italia (il doppio in Germania). Ciò implica una netta perdita di competitività per il nostro manifatturiero.”

Valutazioni esagerate? È anche possibile. Ma quell’ordine di grandezza si riscontra, più o meno, nelle valutazioni dei principali istituti di ricerca. “Nel periodo 1995-2021, – scrive l’Istat (28 novembre 2022) – la crescita media annua della produttività del lavoro in Italia (+0,4%) è stata decisamente inferiore a quella registrata nel resto d’Europa (+1,5% nell’Ue27). Tassi di incremento più in linea con la media europea sono stati registrati dalla Francia (1,2%) e dalla Germania (1,3%). Anche per la Spagna il tasso di crescita (+0,4%) è più basso della media europea e analogo a quello dell’Italia.”

Ed ecco allora che quei 9 euro all’ora rischiano di diventare un macigno, se il ristagno della produttività dovesse permanere. Il combinato disposto tra un salario minimo fisso ed una produttività che non cresce darebbe come risultato una più forte persistenza del processo inflazionistico. A meno che il maggior salario dei lavoratori meno produttivi non sia compensato da una riduzione di quello spettante a coloro che si trovano in una situazione opposta. Vale a dire i settori più produttivi. Con un livellamento che potrebbe essere anche giustificato nel nome di un rinnovato “interesse di classe”, ma sarebbe ben poco congruente con lo zeitgeist (spirito del tempo) che domina i mercati.

C’è solo da aggiungere che l’Italia non è la Germania e nemmeno la Francia. Paesi ben più coesi da un punto di vista produttivo. In entrambi i casi, il “modo di produzione” prevalente è quello dell’impresa di dimensione medio grande. Modello diffuso sia nel manifatturiero che nel servizi, comprese le professioni. In Italia invece domina la piccola e piccolissima impresa. Con un più esteso impiego di capitale umano ed una minore dotazione di capitale. Al punto che l’output finale vede prevalere la componente salariale, rispetto all’uso degli altri fattori della produzione. Il che rende problematico, in termini di costo, una diffusione generalizzata del “salario minimo”. La cui incidenza su prodotto finale, data questa tipologia, sarebbe ben maggiore rispetto a quella dei Paesi concorrenti.

Ci sono poi le grandi differenze territoriali. Nel nuovo “triangolo industriale” (Milano – Treviso – Bologna) sarebbe anche sostenibile. Anche se forse superato dalle reali condizioni del mercato. Come si può dedurre dai bassissimi livelli di disoccupazione, che hanno fortemente ridimensionato “l’esercito di riserva”. Ma nelle altre parti dell’Italia l’effetto sarebbe contrario. In questi territori l’equilibrio è stato garantito da un costo della vita minore rispetto alle medie nazionali. A sua volta riflesso della combinazione “salari più bassi – minore produttività’”. L’intervento legislativo, dovuto all’introduzione del salario minimo, ne altererebbe gli equilibri, con conseguenze difficilmente valutabili a priori.

Un Paese che ha queste caratteristiche difficilmente può indossare un abito confezionato. Ha bisogno invece di una sartoria artigianale, che ne modelli la struttura. Caratteristica che spiega la più estesa diffusione del potere sindacale rispetto al primato della legge. Ne consegue che la via maestra per perseguire obiettivi di equità sociale ed, al tempo stesso, evitare possibili contraccolpi non voluti è quella della contrattazione che, ovviamente, deve essere regolata per evitare il diffondersi di “contratti pirata”. Ma soprattutto decentrata, al fine di aderire meglio alle pieghe di una realtà così variegata, come quella che si riscontra dalle Alpi alla punta dello Stivale. Certo tutto ciò ha poco a che vedere con il tema del “campo largo”. Ma qui si parla del reale interesse dei lavoratori. La politica politicante è, invece, un’altra cosa.

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