Le ambizioni della Repubblica Popolare nel Golfo di Guinea passano per il mare. Dalle infrastrutture alla sicurezza marittima, Pechino vuole stabilire una presenza fissa nell’area, destinata a culminare nello stabilimento di una base militare nell’area. E a scalzare le potenze rivali
In una domenica di luglio, una flottiglia di tre navi da guerra attracca nel porto nigeriano di Lagos. A guidarla è il Nanning, cacciatorpediniere della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione; ad accompagnare il destroyer varato nel 2019 c’erano la fregata Sanya e la nave da rifornimento Weishanhu. La loro sosta di cinque giorni rappresenta un’importante occasione di naval diplomacy per rafforzare la cooperazione reciproca, come sottolineato da rappresentanti istituzionali sia cinesi che nigeriani.
Che Pechino abbia forti interessi in Nigeria non è una novità. Il Paese africano ha accolto nel 2018 l’invito cinese ad unirsi alla Belt and Road Initiative, garantendosi così il finanziamento per numerosi investimenti, nell’ambito delle infrastrutture energetiche (Abuja è uno dei principali esportatori di petrolio grezzo verso Pechino, e numerosi cittadini cinesi vengono impiegati nei processi di estrazione), degli aeroporti e delle ferrovie. Ed anche nel settore delle infrastrutture navali: a gennaio è stato inaugurato a Lekki, area periferica di Lagos, un nuovo porto d’alto mare. Tra i principali investitori risulta la China Harbour Engineering Company, un’azienda controllata dallo Stato cinese. Dettaglio che ha sollevato la questione di un suo ipotetico utilizzo militare da parte della Marina militare di Pechino.
Nel 2022, alcuni rappresentanti dell’apparato militare statunitense hanno espresso il timore verso l’apertura di una base navale cinese nel Golfo di Guinea, una controparte subsahariana di quella già istituita nel 2017 a Djibouti, per la minaccia che essa rappresenterebbe alla sicurezza nazionale americana. Non a caso, nel 2021 la Guinea è stata una delle tappe di una missione di alti funzionari dell’amministrazione Biden, interessati a prevenire una penetrazione cinese nella regione.
L’ipotesi di una base dual-use sita sulle coste della Nigeria è sostenuta anche da Kabiru Adamu, managing director e analista della società di risk and security management Beacon Consulting Limited, che in una sua dichiarazione a Voice of America interpreta la visita della delegazione marittima cinese come un’occasione costruita ad hoc da Pechino per discutere della questione ed esercitare pressione sulle autorità di Abuja. E non solo grazie ai suoi strumenti economici.
Durante gli ultimi anni le acque del Golfo di Guinea hanno registrato un forte calo nel livello di sicurezza marittima, soprattutto a causa dell’aumento degli episodi di pirateria. Questo trend ha spinto i paesi litoranei ad aumentare a livello esponenziale le capacità delle proprie forze navali. Secondo quanto riportato dall’International Institute for Strategic Studies, il numero di vascelli in forza alla flotta nigeriana si è più che decuplicato dal 2008, passando da sole 12 a ben 128 unità; nello stesso lasso di tempo, la flotta dell’Angola è cresciuta del 650%, mentre il Mozambico è passato da non averne nessuna nave ad averne 30. Questa crescita della domanda, riflesso dell’aumento della sensibilità sul grande tema della maritime security, è stata prontamente intercettata da Pechino, che è riuscita quasi a raddoppiare la sua quota di mercato, passando dal 9% registrato nel 2008 al 16% di quest’anno, rimanendo secondo solo a Singapore (e superando gli Stati Uniti).
La fornitura di materiale bellico cinese ha come naturale conseguenza l’invio da parte di Pechino di istruttori e military advisor sul campo, con il compito di addestrare le forze di sicurezza locale all’utilizzo del materiale stesso e all’implementazione di tattiche più sofisticate, per arrivare in seguito allo svolgimento di operazioni militari congiunte.
Uno scenario non dissimile da quello prospettato dall’ambasciatore cinese in Nigeria Cui Jianchun, che ha definito la visita della flottiglia di Pechino un simbolo “dell’alto livello di fiducia tra i due paesi”, che si concretizzerà in “un rafforzamento nei legami tra le due marine per risolvere congiuntamente i problemi di sicurezza nella regione”.
Il proseguimento di tale trend potrebbe portare alla sostituzione di attività di cooperazione con altri Paesi, a vantaggio di nuove collaborazioni con la Cina. Questo si tradurrebbe nell’aumento del coinvolgimento diretto di Pechino, finora più limitato alla sfera diplomatica e a quella commerciale. E allo stesso tempo rischierebbe di provocare la contrazione di ruoli interpretati da attori come l’Italia, attiva nel Golfo di Guinea con l’operazione antipirateria “Gabinia”.
Darren Olivier, direttore dell’African Defense Review, nota come l’approccio di Pechino nella regione ricalchi quello già messo in pratica nel Golfo di Aden. Secondo l’analista, tale modello implicherebbe il coinvolgimento regolare nei pattugliamenti antipirateria e nelle esercitazioni di sicurezza marittima, seguito dalla creazione di una base navale in Africa occidentale per sostenere queste operazioni, proteggere il petrolio cinese e le altre esportazioni dall’area e fornire assistenza per la sicurezza sia agli alleati della Cina nella regione, sia ai suoi cittadini e alle sue imprese.
Una partnership a detrimento generale degli interessi occidentali. In primis quelli di Washington, impegnata con la Nigeria nella gestione della minaccia terroristica diffusa nel nord del Paese. Un impegno che dura da anni, diretto prima contro Boko Haram e in seguito contro le diramazioni — e il loro ampliamento operativo sotto egida baghdadista — che la spaccatura del gruppo ha comportato. Eppure sembra che, nonostante gli anni di cooperazione, Abuja abbia già iniziato un processo di diversificazione nella sua rete di alleanze. Un segnale di come i Paesi africani siano più orientati ad una multipolarità, o ad un multi-allineamento, di quanto l’Occidente voglia pensare.