L’accettazione sempre più ampia del regime talebano, nonostante le denunce da organismi internazionali non riconosciuti a Kabul, può avere effetti globali. Alterando un equilibrio che Russia e Cina vorrebbero riformare a proprio vantaggio
Quando i Talebani sono tornati al potere in Afghanistan, promesse, speranze e soprattutto ipocrisie erano servite a coprire con un velo di positività una delle più grosse sconfitte della strategia politica nota come War on Terror. Si parlava di “nuovi Talebani”: a distanza di due anni possiamo dire che sebbene ci siano alcuni nomi nuovi nella leadership, la brutalità non è cambiata da quella che conoscemmo due decenni fa.
Su quello che è dei più grandi insuccessi delle politiche militarizzate recenti degli Stati Uniti, e in generale di quello che definiamo “Occidente”, sono state spese critiche e analisi, imbastite ampie campagne propagandistiche dagli attori rivali dell’Occidente (Russia e Cina su tutti), investiti milioni in produzioni culturali come il recente successo “The Covenant” – film denuncia di Guy Ritchie sull’abbandono di centinaia di interpreti che avevano collaborato con gli americani, lasciati al loro destino, ossia l’uccisione da parte dei Talebani.
A distanza di due anni, ciò che resta dentro al file Afghanistan di chi scrive è una realtà anacronistica di un Paese governato con regole arcaiche, violenze e arretratezze ideologiche. Si dirà che alcuni dei regni del Golfo, che sempre quel chi scrive racconta con insistenza come impegnati in processi trasformativi profondi e travolgenti, non sono troppo dissimili dal punto di vista ideologico dall’emirato afghano talebano. Tra il vero e il non vero c’è un però: è proprio la presenza di quei processi e quelle trasformazioni che crea differenza. Per dire, il wahhbismo saudita è chiuso, ma le contaminazioni occidentali sono evidenti e la volontà di aprirlo in qualche modo altrettanto. Il pashtunwali talebano incrociato all’Islam etnocentrico Deobandi è contaminato da un fanatismo orribile e senza forme di aperture se non per interessi.
Ciò che resta, si diceva, è questo: gli interessi. Nel realismo nel quale si muovono le relazioni internazionali, nonostante da Washington e da Bruxelles si cerchi di elevare principi e valori democratici come vettori di politica globale, l’Afghanistan ha il suo spazio. C’è, e non è necessariamente giusto che ci sia. Ma c’è: l’Emirato Talebano dell’Afghanistan esiste. Recentemente Gordon Brown, un tempo primo ministro laburista britannico ora all’Onu a guidare l’impegno per l’istruzione globale, ha chiesto di classificare come crimine contro l’umanità il divieto imposto dai Talebani all’istruzione femminile. Lo è, ma difficilmente a Kabul qualcuno sarà scosso dall’appello di istituzioni che non riconosce perché non conformi alla fede sharitica estremista predicata e perché criticate più o meno direttamente da coloro che dell’Afghanistan talebano ne accettano con spaventoso pragmatismo una qualche legittimazione.
L’Afghanistan è un’enorme imperfezione dell’ordine globale per come lo conosciamo attualmente. Ordine che non è detto che resti tale in futuro, perché è già in corso un processo per modificarlo. Processo guidato da chi considera i Talebani interlocutori da ospitare nei proprio edifici governativi in quanto – di fatto – amministratori di un Paese composto da oltre 40 milioni di persone, posizionato in un luogo geostrategico (l’Asia Centrale) su cui le grandi potenze stanno ponendo attenzione. Con un particolare occhio lanciato da Russia e Cina, che di quel tentativo di modificare quell’ordine sono capofila.
Kabul non è l’unica di certe situazioni, ma è quella più esplicita, più cocente, più sfacciata: un impegno militare durato vent’anni da parte dell’Occidente per escludere il regime talebano, combattere il terrorismo e – una volta conquistati “cuori e menti” degli afghani – riprodurre un sistema democratico di amministrazione. Il 15 agosto di due anni fa il piano si è mostrato in tutte le sue debolezze. Ma è a distanza di due anni, con l’accettazione della satrapia talebana diventata quasi generale in una parte di mondo che vede spaventosamente i canoni dettati dall’Occidente come superati, che quelle debolezze rischiano di diventare una delle vulnerabilità di sistema internazionale sotto le pressioni di chi vuole disarticolarlo.