La monarchia del Golfo ha annunciato un investimento per un deposito di nickel: si tratta probabilmente di un game changer per l’industria globale, in cerca di capitali finanziari per diversificare l’offerta dalla Cina. Quale sarà il peso dei sauditi nel de-risking dell’Occidente?
Due giorni prima che la Repubblica Popolare Cinese annunciasse le possibili restrizioni su gallio e germanio, due materiali critici per l’industria dei semiconduttori, Xi Jinping aveva visitato – in una delle sue apparizioni molto più che simboliche – la regione cinese del Sinchuan, ricca di risorse agricole ma soprattutto di litio, vanadio e titanio.
Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, il presidente cinese avrebbe dichiarato a margine della sua visita: “Dovremmo rafforzare la produzione e l’offerta di cibo e risorse minerarie strategiche, e costruire una riserva strategica per garantire le forniture di prodotti primari per il nostro Paese”. Si tratta di parole che risuonano con forza nell’attuale contesto internazionale, segnalando la volontà della Cina di non voler perdere il controllo sulle materie prime critiche e di prepararsi ad una più accesa competizione globale ora che Stati Uniti, Unione europea, Giappone e Corea corrono ai ripari.
E tra le possibili alternative al dominio cinese, che si estende oltre i confini della Cina con importanti investimenti in Cile, Argentina e Australia, oltre che ad una crescente presenza in Africa, non è passata inosservata la mossa che sancisce l’entrata in scena dell’Arabia Saudita.
L’accordo da circa 2.6 miliardi di dollari annunciato dalla monarchia del Golfo con Vale (multinazionale mineraria con sede a Rio de Janeiro, quarta tra le majors per capitalizzazione borsistica, dietro a BHP Group, Rio Tinto e Glencore, e con attività minerarie diversificate) probabilmente getta le basi per un cambio di paradigma nel contesto degli investimenti globali nel settore dei minerali e dei metalli. L’investimento darà a Ryhiad il 10% degli interessi (diventando azionista di minoranza) per quanto concerne l’unità produttiva del colosso brasiliano che si occupa di nickel e rame, due ingredienti fondamentali per la decarbonizzazione ed elettrificazione via batterie, reti elettriche e generatori eolici.
Secondo le stime di Reuters, Vale Base Metals acquisirebbe così un valore di 26 miliardi di dollari, circa 10 volte il margine operativo lordo che gli analisti si aspettavano dall’unità produttiva nel corso di quest’anno. In sostanza, grazie all’imponente disponibilità di capitali, i sauditi stanno pagando oltre il dovuto, ma assicurandosi importanti stakes e acquisendo il know-how di una major mineraria globale.
“L’investimento in Vale” si legge nel comunicato stampa “giocherà un ruolo cruciale nel supportare l’espansione della produzione di rame e nichel nel suo portfolio, che sono critici per lo sviluppo delle nuove tecnologie alla base della transizione energetica”. Secondo le stime della compagnia, l’accordo consentirà di aumentare la produzione di rame dalle attuali 350,000 tonnellate a 900,000 all’anno, mentre quella di nichel da 175,000 a circa 300,000 tonnellate.
Secondo le ricostruzioni, sarà una joint venture (Manara Minerals) tra la Saudi Arabian Mining Company (Maaden) e il fondo sovrano saudita (Public Investment Fund, con più di 780 miliardi di dollari di capitali) che gestirà la divisione di Vale, che ha confermato nuovi progetti in Brasile, Canada e Indonesia per un valore complessivo di 30 miliardi di dollari, soprattutto per sostenere la produzione di nickel e rame. Il report consuntivo del secondo quadrimestre di quest’anno di Vale riporta come la produzione di rame sia cresciuta del 41% su base annuale, con le vendite aumentate del 18%, mentre per il nickel sono aumentate rispettivamente dell’8% e del 3%.
Non si tratta di una mossa isolata. Il fondo sovrano saudita aveva annunciato di voler investire oltre 3 miliardi di dollari per acquisire asset minerari stranieri. Sarebbe inoltre in contrattazioni con Barrick Gold Corporation per investire in un’enorme miniera di rame in Pakistan. Anche gli Emirati Arabi Uniti (UAE) hanno di recente investito 1.9 miliardi di dollari per lo sviluppo di miniere in Congo. Secondo i top executives dei grandi colossi minerari, il valore dell’investimento su Vale rappresenta un chiaro segnale che i sauditi, e in generale le petromonarchie del Golfo, sono pronti ad espandersi all’estero. Una discesa in campo che avrà certamente un peso nell’attuale geografia del controllo della produzione di materiali critici, fortemente sbilanciata sulla Cina.
Secondo la Vision 2030, strategia saudita per diversificare l’economia dal petrolio, Ryhiad vuole costruire un industria mineraaria (che già vede i sauditi attivi nel settore dell’alluminio, dell’oro e del fosfato) che sia all’altezza delle sfide della transizione energetica, portandone il contributo sul prodotto interno lordo dagli attuali 17 a 64 miliardi di dollari. L’Arabia Saudita, inoltre, è già sede di un importante summit sulle materie prime, il Future Minerals Forum, che riunisce importanti stakeholders del settore e che si presta a diventare un appuntamento cruciale per l’ingresso della regione nelle filiere globali e nella diplomazia multilaterale sulle materie prime.
Inoltre, l’iniezione di petrodollari in nuovi progetti e attività estrattive renderà il mercato più liquido, capace dunque di generare quel cash flow così necessario per sostenere attività ad alta intensità di capitale. Nonostante i passi avanti registrati in investimenti e nuove iniziative d’esplorazione secondo i dati raccolti dall’International Energy Agency (IEA) nell’ultimo biennio, il gap esistente tra attività minerarie richieste e la domanda dalle industrie downstream (su cui si è concentrata l’attenzione degli investitori) rimane consistente come ha rilevato, di converso, l’Energy Transition Commission (ETC).
Per l’Occidente si tratta di capitali, quelli sauditi, che progressivamente diventeranno più appetibili e meno politicamente scomodi rispetto a quelli cinesi. Gli imperativi di sicurezza nazionale sulle opportunità commerciali hanno, infatti, già fatto breccia nei calcoli del governo australiano, che ha bloccato cordate cinesi nell’acquisizione di asset minerari di litio e terre rare nel corso dell’anno. A novembre del 2022 era stato il Canada a imporre a due aziende cinesi di disinvestire da importanti depositi di litio tramire la partecipazione in aziende canadesi.
Secondo Robert Friedland, finanziere nel settore minerario e tra i principali promotori dell’industria del cobalto nella Repubblica Democratica del Congo, è probabile che i petrodollari diventeranno sempre più importanti nella corsa alle materie prime critiche (il Qatar già uno dei principali investitori nel colosso minerario Glencore) e alla diversificazione. “Il governo americano ha una politica dell’ABC: Anything But China. Dunque andrà dai leader del Medio Oriente e dirà: ‘Dovreste offrire alle popolazioni africane un’alternativa [ai cinesi n.d] per finanziare le miniere in Africa. Riciclate qualche petrodollaro”.