Sono passati 3 anni da quel 4 agosto 2020 quando il porto commerciale del Libano si polverizzò per una esplosione che sentirono fino a Cipro. Un urbicidio con molta probabilità autoprodotto e un’inchiesta che porti alla verità paralizzata. Il racconto di Riccardo Cristiano
Il 4 agosto 2020: un cratere profondo 43 metri, un’onda d’urto della potenza di un terremoto superiore al terzo grado della scala Richter, un boato che si è sentito fino a Cipro, la polverizzazione del porto commerciale e l’inagibilità di tutti gli edifici dei quartieri adiacenti. Il crimine contro l’umanità di urbicidio si è consumato ai danni di Beirut il 4 agosto di tre anni fa. Non si conoscono altri eventi simili nella storia di altri Paesi del mondo e le evidenze che l’urbicidio di Beirut sia stato autoprodotto stanno tutte nel fatto che il governo libanese da tre anni a questa parte ha ostacolato in tutti i modi il magistrato inquirente, che i parenti delle vittime sono stati minacciati senza che ciò abbia avuto conseguenze, che le manifestazioni di solidarietà sono state represse e l’inchiesta dopo essere stata ostacolata è ormai paralizzata. La lezione più importante però è un’altra: i responsabili non accertati ma indicati dalla magistratura inquirente sono interlocutori del grande mediatore internazionale, la Francia, che cerca di rimettere d’accordo la cricca di ladri e assassini che sgoverna il Libano da un decennio e l’Onu a tutto questo non ha mai eccepito alcunché.
Il Libano da allora è sprofondato in una crisi economica e istituzionale che non ha pari nella storia recente, con i conti correnti bloccati, banche fallite e il progetto dell’ex Presidente di avvantaggiarsi di tutto questo con la creazione di banche nuove di zecca e amiche andato a gambe all’aria; solo chi sa gestire un’economia fondata su cash e traffici illegali di valuta, petrolio e droga può gioire del disastro, che non è tutto qui. Il nome proprio di chi gioisce è Hezbollah, anche se molti sono i comprimari gaudenti in altri campi, compreso quello cristiano. Il risultato è da brividi: la Presidenza della Repubblica è vacante da ottobre, il governo è in carica per il disbrigo dei soli affari correnti, il mandato del governatore della Banca Centrale è ormai scaduto, lui è inquisito in Europa, nessuno può nominare il suo successore.
In questo quadro è chiaro che la vera prospettiva non è la guerra civile, che pur servirebbe se fosse contro un establishment che ha depredato e devastato il Paese, ma il vecchio progetto politico ispirato da tanti: la cantonalizzazione del Paese, cioè la riduzione del Libano a un finto Stato all’interno del quale Hezbollah si impossessa del suo Sud ed aree attigue, come la valle della Beqaa, i cristiani esultano per il venire rinchiusi nella prigione a cielo aperto del Monte Libano, i drusi tornano ad alzare fortificazioni intorno al loro Shouff.
Se i khomeinisti di Hezbollah non avessero ucciso Beirut con l’esplosione di tre anni fa, nel silenzio del mondo, tutto questo non avrebbe potuto prospettarsi. Beirut, con tutti i suoi limiti e i suoi orrori, era la Maginot dell’unità cosmopolita del Libano, uniti da Beirut, una piccola fortificazione divenuta metropoli per via di mille fughe da guerre confessionali verso la stessa città. Così è nata la perla delle riforme ottomane.
Città che ha dato riparo ad esuli di ogni dove, ora è una carcassa attraversata da sopravvissuti senza i mezzi per sbarcare il lunario e infrastrutture nascoste che collegano i miliziani con i loro padroni. Il mediatore francese a nome della comunità internazionale ha concesso alle cricche che sgovernano il Libano e che trattano con lui del suo futuro un agosto di meritato riposo: si rivedranno a settembre. Dunque è agosto il mese in cui sperare per impedire che “la stabilità” trovi il modo per assestare il colpo di grazia al Libano. È la stabilità la minaccia mortale dietro la quale si nasconde la morte definitiva, per sopraggiunto arresto cardiaco, dell’ultimo scale del Levante, Beirut, bastione stremato di un mondo plurale e cosmopolita destinato a finire come Salonicco, Alessandria d’Egitto, Smirne ed altri scali del Levante uccisi senza clamore perché la loro morte è servita alla stabilizzazione di regimi che ne hanno odiati la natura cosmopolita.
Basta guardarli in faccia i tiranni vittoriosi, alla cui stabilità l’Europa invia offerte miliardarie, e cioè l’egiziano al-Sisi, il tunisino Saied, il siriano Assad: sono i volti moderni del fascismo arabo. Il khomeinista libanese Nasrallah cerca il suo ventriloquo cristiano al quale affidare la presidenza pro-forma del Libano per diventare il quarto di questo apprezzato quartetto.
Il concorso europeo è decisivo per riuscirci e la parola-chiave per renderci sicuri di aver fatto bene ad aiutarli, ovviamente, è “stabilità”. Una stabilità che anche a Beirut si fonderà sull’urbcidio di una città che esiste solo se è cosmopolita, come erano gli altri scali del Levante, uccisi tutti nel secolo scorso. Al suo funerale Beirut ha donato ai suoi assassini le chiavi del commercio più importante per tutto il Mediterraneo orientale, quelle della droga sintetica, il captagon, nuovo diamante che adorna la corona del patto tra ‘Ndrangheta, Hezbollah e i narcotrafficanti messicani di Los Zetas, come dimostra il recente arresto a Junieh, porto dei maroniti libanesi, del superlatitante ‘ndranghetista Bartolo Bruzzaniti, ricercato da tanto tempo dall’Interpol.
La morte a tappe di Beirut va raccontata per essere capita e così capire “il progetto” degli assassini. Se gli altri scali del Levante erano già stati ammutoliti e uninformati da despoti di questo o quel gruppo politico, Beirut no, la sola capitale portuale del Levante aveva saputo rialzarsi dalla guerra civile scoppiata nel 1975 e che per 15 anni aveva visto soprattutto le milizie falangiste cristiane accanirsi contro il centro cittadino e la sua connaturata promiscuità urbanistica: quelle milizie volevano al suo posto un quartiere con viali lunghi e larghi, imponenti magari come a Berlino, quanto di più lontano esista dall’orientale. Il vecchio centro però è rinato grazie all’impegno di un uomo d’affari, il miliardario Rafiq Hariri, amico di sauditi, europei, americani. Discussa, giustamente, da molti, l’impresa di Hariri però era riuscita e il centro di Beirut era tornato, grazie alla sua promiscuità architettonica, anche se un po’ esclusiva, ad essere la casa di tutti con i suoi grandi mercati e spazi pubblici. Dai quartieri confessionali e limitrofi in tanti si riversavano lì in centro, unendo sunniti, sciiti, cristiani, drusi e altri ancora. Il Libano era di nuovo uno, almeno la sera, prima che ognuno tornasse a dormire nei suoi quartieri confessionali. Ma se ognuno dormiva con i suoi, la sera si andava tutti a sognare nel centro risorto grazie ad Hariri.
Poco dopo l’assassinio di Hariri per mano di un gruppo di miliziani di Hezbollah, il Partito di Dio ha posto sotto assedio proprio il centro cittadino, pagando i suoi perché lo circondassero giorno e notte, accampati in tende e sacchi a pelo. Il centro di Beirut ha finito col chiudere di nuovo, per assedio. Negozi e ristoranti abbassarono le saracinesche, il Libano, che esiste solo con l’unità delle sue diversità, è tornato in discussione. I miliziani del nuovo millennio sono nemici dei miliziani del millennio scorso, ma il loro obiettivo è lo stesso: distruggere il centro promiscuo di Beirut, il vero collante di un Paese che unisce volti e storie diverse, essendo Beirut una città araba, europeizzata, moderna e mediterranea. Questo secondo assalto ha avuto luogo sul finire del primo decennio del nuovo millennio, il suo vero obiettivo era strangolare il nuovo centro di Beirut, il miracolo di Hariri, l’uomo che, piaccia o no, aveva riunito Beirut, l’ultimo scalo del Levante rimasto in vita.
La terza aggressione contro Beirut ha avuto luogo tre anni fa, sempre per il nome di Hariri. Il tribunale penale internazionale per il Libano aveva annunciato finalmente che in due o tre giorni avrebbe emesso il suo verdetto sul camion bomba che uccise Hariri sul lungomare di Beirut in quel lontano 14 febbraio del 2005. Erano serviti quindici anni per arrivare alla sentenza… A poche ore da quel verdetto Beirut è saltata in aria, quasi a dire che la condanna degli inquisiti (latitanti ) di Hezbollah non avrebbe salvato la città. Un gigantesco deposito di nitrato d’ammonio fatto entrare anni prima nel porto cittadino e lì custodito da Hezbollah per rifornire Assad, negli anni e clandestinamente, di esplosivo prezioso per i suoi “barili bomba”, è stato colpito e tutto è esploso. Il porto di Beirut è notoriamente sotto il controllo miliziano e illegale da decenni e l’ingresso e lo stoccaggio di quell’enorme quantitativo di esplosivo non avrebbe potuto aver luogo senza il loro assenso e il loro silenzio.
Dunque è l’unità libanese l’obiettivo di un’azione politica costante, che mira a svuotare lo Stato e a trasformare il Paese in una serie di cantoni controllati da una cupola che politicamente lascia fare ai traffici ed ai trafficanti, nel nome di interessi illegittimi e dell’indispensabile odio comunitario.