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I Brics si allargano e pensano a riforme globali

Alla fine i Brics hanno offerto la possibilità di ingresso nel gruppo ad alcuni Paesi. La visione sull’allargamento però non è univoca, e rispecchia le differenze tra i vari membri. Riformarsi serve anche a mandare un messaggio a istituzioni globali come l’Onu. E una nuova Bretton-Woods? “Ancora è presto”, risponde Muresan (Igd)

Quando il brasiliano Folha de Sao Paolo ha dato, tra i primi, la notizia dell’invito all’ingresso nei Brics ad altri sei Paesi, è stato spietato: “Il gruppo guadagnerà tre autocrazie arabe (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto), una teocrazia che fa parte dell’ex ‘Asse del Male’ (Iran) e due Stati in vari gradi di bancarotta, l’Argentina in una crisi acuta e l’Etiopia recentemente uscita da un’altra guerra civile”. E però, al di là della lettura più cruda ci sono molte altre considerazioni che escono dal vertice di Johannesburg a cui Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica hanno invitato dozzine di altri Paesi interessati all’ingresso.

“Tutti gli occhi erano puntati sulla potenziale espansione dei Brics”, spiega Arina Muresan, senior fellow dell’International Global Dialogue, think tank di Pretoria che osserva il mondo con occhi diversi da quelli occidentali. “I Paesi che hanno aderito inizialmente alla partnership lo hanno fatto perché sentivano che le loro voci non erano ben rappresentate, e quindi il desiderio di creare un ordine mondiale più equo, che risuona ancora con molte parti del Sud globale. I Paesi invitati come ‘Brics+’ o ‘Brics Outreach’ ai vertici condividono attualmente valori e soprattutto interessi simili”.

Perché espandere il sistema Brics 

E in effetti, la partecipazione degli Emirati Arabi Uniti può aiutare con gli obiettivi dell’architettura finanziaria; l’Arabia Saudita è il più grande dei produttori di petrolio mondiali (Iran ed Emirati sono parte del gruppo), e il petrolio è ancora tra le principali materie prime energetiche; un dialogo tra Riad, Abu Dhabi e Teheran sotto l’ombrello Brics permetterebbe alla Cina di essere in qualche modo regolatrice delle tensioni mediorientali; Egitto ed Etiopia permettono continuità geostrategica in Africa, l’Argentina in Sudamerica.

Secondo la ricostruzione del sudafricano Daily Maverick, la Cina era a favore dell’ingresso dell’Iran e dell’Arabia Saudita, mentre il Sudafrica ha nominato l’Egitto come Paese preferito e il presidente brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva, ha sostenuto la vicina Argentina. Per quanto riguarda gli Emirati il consenso pare sia stato unanime (con particolare supporto russo), mentre sull’Etiopia — altra proposta sudafricano per rafforzare la presenza sud sahariana — ci sono state un po’ di remore (si era parlato anche di Senegal, ma alla fine è stato dato il via libera ad Addis Abeba perché guida attualmente l’Unione Africana).

La forzatura sull’espansione è avvenuta nella cena a porte chiuse durante la prima delle tre giornate di incontri. Ha vinto la linea della Cina, che da mesi sostiene che l’incontro di Johannesburg doveva essere quello con cui si sarebbe dovuto dare inizio all’allargamento. Gli altri Paesi non erano contrari, sebbene ripetono che servono criteri ben definiti. Anche dalle dinamiche raccontare sulle scelte, l’India è quella più distante dalla decisione: Nuova Delhi teme che il peso nell’organizzazione si annacqui e che la Cina la faccia diventare una propria sfera di influenza, eccessivamente sbilanciata su una linea anti-occidentale.

Non contro il G7, ma per maggiore equità

“C’è il desiderio di paragonare i Brics al G7”, osserva Muresan. “Il G7 – continua – trova la sua forza nelle istituzioni globali del secondo dopoguerra, come il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale, ma queste istituzioni e politiche non sono più in sintonia con le sfide che tutti i Paesi stanno affrontando”. C’è un reale desiderio di riformulare certe istituzioni e in generale di rivedere l’ordine globale: è mosso da diversi Paesi con intenti e interessi diversi. Formiche.net ha riscontrato questo sentimento in conversazioni off-the-record tenute in queste settimane con diversi diplomatici africani e della regione indo-pacifica, con cui si è parlato anche di Brics. Sebbene ci sia sempre volontà di marcare le proprie priorità e segnare le proprie individualità sulla lettura del contesto globale, e sebbene non si voglia dare la sensazione che queste richieste siano un moto anti-occidentale. Anzi.

Queste differenze segnano anche una delle discontinuità all’interno del raggruppamento, dove i membri hanno traiettorie di sviluppo diverse e dunque agende, priorità e interessi differenti. “Attualmente, i Brics rappresentano più che altro un raggruppamento politico. Per competere con il G7, l’impulso politico dovrebbe passare a quello economico e all’aumento della quota di mercato”, spiega Muresan. Per allargare la quota di mercato potrebbe essere propedeutico proprio l’allargamento del gruppo.

Riforme globali, ma fino a che punto?

Stando ai retroscena dell’Hindustan Times, l’allargamento è stato anche frutto di un processo di quid pro quo. “L’espansione e la modernizzazione dei Brics è un messaggio che [dice che] tutte le istituzioni del mondo devono modellarsi in base ai tempi che cambiano. Questa è un’iniziativa che può essere un esempio di riforme in altre istituzioni globali che sono state istituite nel XX secolo”, ha detto il primo ministro indiano, Narendra Modi. È un chiaro riferimento alla richiesta di lunga data di espandere il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (CdS), aumentando il numero di rappresentanti permanenti e non permanenti. India, Brasile e Sudafrica puntano a questo obiettivo, e anche per tale ragione avrebbero accettato l’allargamento dei Brics: e per mandare il messaggio espresso da Modi, e per cercare sponda in Cina e Russia — membri permanenti del CdS — sulla riforma compositiva.

La sponda cinese su questo progetto potrebbe però essere complicata da trovare. Il Brasile ci sta provando da tempo, ma Pechino ha un dilemma: lavorare per l’aumento dei seggi alla massima assise Onu le permetterebbe di assumere una posizione aperta alle esigenze di nazioni appartenenti al cosiddetto Global South, di cui la Cina vuol essere protagonista. Contemporaneamente, per coloro che sono entrati potrebbe essere vista come la potenza di riferimento. Ma in cima alla lista dei potenziali nuovi membri del CdS ci sono India e Giappone. Sono due Paesi che godono della sponsorizzazione degli altri componenti permanenti — Stati Uniti, Francia e Regno Unito — e soprattutto sono due rivali geopolitici della Repubblica popolare.

Questa riforma delle istituzioni internazionali non è l’unica passata anche dalla riunione di Brics. Sul tavolo c’è quella richiesta di rivedere il sistema che regola gli equilibri economico-finanziari noto come Accordi di Bretton-Woods. A Johannesburg se n’è parlato, ma per il momento più che a un’idea pratica, sembra che ci si trovi davanti a una narrazione e alla sua spinta retorica. “Bretton Woods consentiva ai Paesi di agganciare le proprie valute al dollaro americano, fissandole al prezzo dell’oro. Una volta che gli Stati Uniti hanno abbandonato il gold standard, il dollaro è cresciuto di forza, ma anche gli Stati Uniti. Il Sud del Mondo sostiene con forza che la governance economica globale è orientata a favore di queste decisioni storiche. Una nuova Bretton Woods significa una nuova valuta in grado di rivaleggiare con il dollaro Usa? O istituzioni che la sostengano? Al momento i Brics stanno lavorando sull’utilizzo delle valute nazionali negli scambi commerciali, elaborando al contempo un maggiore sostegno istituzionale. Per ora la Nuova Banca di Sviluppo dei Brics serve a questo scopo e mira a fornire il 30% dei prestiti in valuta locale. Ma c’è ancora molta strada da fare prima che possa fregiarsi del titolo di ‘nuova Bretton Woods’”, spiega Muresan.

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