Skip to main content

Il nuovo miracolo cinese è già finito. O forse non è mai cominciato

Il crollo delle esportazioni di luglio rivela problemi forse addirittura precedenti alla pandemia. Il Dragone vende meno all’estero e gli stessi cinesi non consumano come dovrebbero. E la Russia ormai legata mani e piedi all’export di Pechino non basta a compensare il calo. Cosa ne pensa Adam Posen del Peterson Institute

Era previsto un mese difficile, va detto. Ma è andata peggio. La Cina ha vissuto il suo quarto d’ora horror, in pieno agosto, proprio quando la crisi del debito locale è tornata a martellare la seconda economia globale. Affondano infatti oltre le attese, a luglio, sia l’export sia l’import della Cina che calano, rispettivamente, del 14,5% e del 12,4% su base annua, alimentando parecchi dubbi sulla tenuta dell’economia del Dragone. Pechino, insomma, vende meno di quando dovrebbe all’estero, toccando con mano una prima vera crisi di sfiducia verso quello che fino a prima della pandemia era il cuore pulsante dell’emisfero orientale.

Secondo i dati diffusi dalle Dogane cinesi, il surplus commerciale nel mese, si è attestato a 80,6 miliardi di dollari, oltre i 70,62 miliardi di giugno e i 70,6 miliardi attesi a luglio. Le esportazioni cinesi sono così diminuite del 14,5% a luglio 2023 su base annua, contro il -12,5% previsto. Ma per completare il quadro, manca un elemento. E cioè che risulta anche in forte calo l’import dalla Russia (-8,1%) da cui Pechino ha comprato negli ultimi tempi quantitativi crescenti di combustibili fossili.

Il crollo potrebbe essere però riconducibile ad una flessione delle quotazioni più che dei quantitativi acquistati. Vola viceversa l’export verso Mosca, in crescita di un altro 52% (da +90,9% a giugno), a 10,28 miliardi e questo perché la Cina sta rimpiazzando le forniture occidentali per svariate categorie di prodotti, a cominciare dalle auto. Insomma, il dato sulla bilancia commerciale aumenta i timori per la difficile fase economica che sta attraversano il Paese.

Cosa di cui è fermamente convinto anche un autorevole economista americano, Adam S. Posen, presidente del Peterson Institute for International Economics che su Foreign Affairs ha detto la sua. “L’attuale debolezza della ripresa cinese non è solo un problema temporaneo e superabile con qualche manovra di spesa pubblica. Sarebbe invece la conseguenza di mali profondi e strutturali, che segnano la fine del miracolo cinese, rendono irripetibile un ritorno al boom dei tre decenni precedenti”, scrive Posen.

In realtà la perdita di dinamismo dell’economia cinese è antica, precede di almeno quattro anni la pandemia. Dai dati che cita Posen l’anno-chiave risulta essere il 2015. Molto prima del Covid. Dal 2015 ad oggi, osserva Posen, i consumi di beni durevoli (come le automobili) in Cina si sono ridotti di un terzo. Per gli investimenti delle imprese la caduta è stata ancora più pesante, il loro livello odierno è inferiore di due terzi rispetto a dov’erano nel 2015. “Nello stesso periodo, cioè nell’arco degli ultimi otto anni, la quota del risparmio delle famiglie in proporzione al Pil è cresciuta del 50%”. Dunque? La conclusione di Posen è netta: sono tutti dati che convergono a formare un quadro di sfiducia: le imprese non riprendono a investire se non in piccola parte, i consumatori non riprendono a spendere come prima, e invece accantonano risparmio per paura.

×

Iscriviti alla newsletter