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Libia, ancora tensioni e rischio caos

Per Mezran (Atlantic Council), il rischio della vicenda Cohen/Mangoush è che ci siano destabilizzazioni da parte dei radicali in Libia e lo sfruttamento della crisi da parte di attori regionali. A Tripoli le tensioni continuano, e il caos è appena sotto la superficie

L’amministrazione Biden stava collaborando da tempo sull’apertura di un canale di contatto tra la Libia e Israele, poi Eli Cohen, ministro degli Esteri israeliano che a dicembre dovrà lasciare il posto per un rimpasto programmato, ha rivelato un incontro a Roma con la collega Najla Mangoush e generato un putiferio. Gli americani si sono infuriati e hanno fatto sapere ai media tutta la loro irritazione. Ora temono che il processo di normalizzazione arabo-israeliano — che vorrebbero continuare a spingere più sotto l’ottica del Forum del Negev che quella degli Accordi di Abramo — possa saltare.

Intanto è saltata Mangoush, ministra che in patria non era particolarmente apprezzata ma che aveva un suo standing a livello internazionale. Profilo ideale per fare da canale diplomatico per questi contatti con Israele, ma anche per costruire su di lei qualche altro genere di percorso. Se infatti è vero che sta nascendo un’idea alternativa a quello del Governo di unità nazionale (Gnu) guidato da Abdelhamid Dabaiba, è altrettanto vero che Washington sembrava credere su una qualche genere di continuità, almeno stando alle informazioni sulla volontà di normalizzazione spinte dagli Usa.

Mangoush poteva avere un ruolo anche nella costruzione di un futuro nuovo governo di scopo (dove lo scopo è procedere nell’ulteriore processo di stabilizzazione e magari procedere verso le elezioni di cui si parla da molto tempo)? Ai requisiti internazionali poteva aggiungere le relazioni (anche personali) con il gruppo di potere attorno a Dabaiba, le quali avrebbero potuto garantire forme dì continuazione anche alle intese profonde che mantengono l’attuale governo. Sebbene è probabile che in altre parti della Libia il suo nome alla guida di un esecutivo non sarebbe mai passato. Fatto sta che l’opzione è bruciata.

Il caos libico

La Libia continua a essere un contesto caotico. Il Gnu governa il Paese tramite un’investitura ricevuta dal processo di stabilizzazione lanciato dall’Onu nell’ottobre 2020 — sfruttando il cessate il fuoco dopo che le forze miliziane di Khalifa Haftar avevano lanciato, da Bengasi (nella regione orientale, la Cirenaica) un assalto infruttuoso al precedente governo onusiano. Dabaiba ha fallito la sua missione, organizzare le elezioni, e la Camera dei Deputati, con sede a Tobruk, nell’est, ha cercato di togliergli la fiducia accordandola (all’inizio del 2022) a un altro proto-governo, che però in oltre un anno non è mai riuscito a entrare a Tripoli — e ha infine rinunciato alla sua missione. L’equilibrio interno si regge attualmente sul controllo territoriale (e su alcuni centri di potere) delle milizie.

Una reale statualità, per come viene canonicamente intesa, non esiste in Libia. Anche per questo è strano che gli Usa avessero avallato la normalizzazione con Israele. Dabaiba è un leader che non ha il controllo del Paese, ma solo di una parte di esso, per altro esercitato quasi unicamente attraverso il mantenimento di relazioni di interesse con alcune delle milizie che si trovano a Tripoli — che per altro anche recentemente si sono scontrate proprio per quegli interessi. Le proteste provocate dalla diffusione trionfalistica da parte di Cohen della notizia dell’incontro con la collega libica si inserisco in questo contesto altamente sensibile. Anche per questo hanno ricevuto un’eco maggiore.

“Quando Mangoush stava per prendere un aereo per raggiungere la Turchia, si sono diffuse voci a proposito che su quel volo ci fosse addirittura Dabaiba: anche il solo fatto che circolino notizie sul premier in fuga da Tripoli segna la sua debolezza interna”, commenta Karim Mezran, direttore della North Africa Initiative dell’Atlantic Council. I manifestanti hanno protestato davanti all’edificio del ministero e provato a incendiare la casa del primo ministro. La reazione è stata dettata dall’accaduto e da vari livelli di criticità interni che aprono a pretesti.

“Avvicinare attualmente la Libia a Israele è un processo diplomaticamente scoordinato. Il rischio non è solo la reazione popolare, ma la destabilizzazione del precario esecutivo e il ritorno sulla scena di figure estremiste, come per esempio quella di Salah Badi”, fa notare Mezran. Badi è uno dei capi miliziani più influenti di Misurata, da cui viene Dabaiba: Misurata, città-stato sulla costa centrale, è fondamentale per gli equilibri interni. Badi, ricercato internazionale, già inserito nelle liste delle sanzioni delle Nazioni Unite, ha chiesto la mobilitazione per rovesciare Dabaiba.

Effetti regionali?

“Il problema non è il fatto che questi contatti non siano rimasti segreti, perché difficilmente lo sarebbero potuti restare dato che Israele aveva tutti gli interessi a rendere pubblica questa comunicazione con un Paese arabo. L’errore è stato il modo, perché tutto doveva essere gestito in modo più discreto e controllato”, aggiunge Mezran. Per l’esperto dell’Atlantic Council le conseguenze non sono impreviste: “Le normalizzazioni con Israele sono un argomento che funziona tra le élite, ma tra le collettività sono più problematiche, tanto più con questo governo che ha una linea molto severa con i palestinesi”.

Quello che sta succedendo in Libia, come evidenziato su queste colonne da Arturo Varvelli (Ecfr) è anche una reazione pretestuosa per regolare disequilibri interni. Le posizioni più radicali stanno cavalcando la situazione per tornare a galla e guadagnare consensi e dunque potere in Tripolitania. In Cirenaica, Haftar resta per ora in silenzio: in passato si era parlato anche di un contatto tra l’intelligence israeliana e il maresciallo di Bengasi, tramite il figlio Saddam. Haftar sa di dover evitare che il tema crei proteste e disequilibro anche nei suoi territori, dove non ha una presa totale.

“Su quanto accaduto e sugli effetti in Libia, che dei Paesi coinvolti è certamente il più debole, potrebbero cercare di capitalizzare i propri interessi anche attori regionali: su tutti Algeria e Tunisia. Soprattutto Algeri sta cercando di guidare il blocco della contro-normalizzazione, intestandosi questo ruolo nel mondo arabo contro che in tanti ancora definiscono ‘entità sionista’. E questo potrebbe pesare sugli equilibri libici. Per di più toccando anche l’Egitto, che ha già rapporti normalizzati da tempo con Israele, ma ha complessità interne rilevanti appena sotto una superficie di stabilità forzata”.


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