È difficile capire se l’Europa sarà in grado di cambiare il suo approccio in Africa, ma è certo che su questo si gioca gran parte della credibilità internazionale del nostro governo. Se vuole essere davvero credibile, l’Unione europea deve innanzitutto partire dai bisogni della popolazione locale: sistemi sanitari efficienti, acqua potabile, elettricità prodotta da energie rinnovabili, posti di lavoro. Non solo l’impostazione securitaria che favorisce le élite militari (e dunque i colpi di stato)
L’agguato che ha ucciso 17 militari del Niger al confine con il Mali conferma la riflessione critica promossa oggi dal New York Times con il podcast di Declan Walsh: “Why a Coup in Niger Has the World’s Attention” . Walsh segnala l’esigenza di un ripensamento dell’approccio eccessivamente securitario adottato dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea nel Sahel.
Per Walsh non avremmo dovuto dimenticare che l’addestramento e l’equipaggiamento degli eserciti africani crea i presupposti per la formazione di élite militari potenzialmente meglio attrezzate a condurre con efficacia colpi di stato. In questa cornice è particolarmente urgente capire perché la rivolta dei generali a Niamey sembra aver colto tutti di sorpresa.
Mentre in Mali e Burkina Faso si è manifestato un visibile deterioramento della situazione sul terreno, le cose in Niger sembravano funzionare; il paese era addirittura indicato come il modello di successo della cooperazione occidentale. Nel podcast del New York Times si affronta specificamente il caso del Mali dove si è determinata una vera e propria reazione a catena con esiti decisamente negativi.
Con il progressivo abbandono delle forze francesi e internazionali i generali golpisti (pur potendo contare sul supporto di Wagner) non sono stati in grado di reprimere con efficacia le azioni dei gruppi terroristici di matrice islamista che nell’ultimo anno sono cresciute del 40%. Senza un ripensamento delle modalità di intervento e una profonda revisione strategica il rischio è che in tutto il Sahel si determini una spirale di violenza e che nel contempo si sviluppino processi di destabilizzazione politica a vantaggio degli interessi della Federazione Russa e della Cina.
In questo difficilissimo contesto il Generale Maurizio Fioravanti ha sottolineato su Repubblica il ruolo di guida che l’Italia potrebbe svolgere a livello dell’Unione Europea. Non c’è dubbio che nel Sahel i sentimenti anti francesi siano fortemente radicati e che un cambio di leadership potrebbe essere utile.
Ma non basta la discontinuità della guida. L’Italia può svolgere un rilevante ruolo europeo soltanto se si fa interprete di un radicale cambio di strategia della Ue nei confronti dell’Africa. Se vuole essere davvero credibile l’Unione Europea deve innanzitutto partire dai bisogni della popolazione locale. Ai cittadini africani servono sistemi sanitari efficienti, acqua potabile, elettricità prodotta da energie rinnovabili, posti di lavoro, ecc.
L’Italia deve puntare su questo tipo di priorità. È per garantire l’attuazione di queste scelte strategiche che serve una presenza militare e una cooperazione bilaterale e multilaterale nell’area della sicurezza. In tema di cooperazione civile/militare vengono in mente i successi – molto consistenti – della sanità militare dei Marines nell’azione di contrasto e prevenzione dell’Ebola in Liberia.
È difficile capire se l’Europa sarà in grado di cambiare il suo approccio in Africa, ma è certo che su questo si gioca gran parte della credibilità internazionale di Giorgia Meloni. Se la retorica pubblica sull’Africa – per fini elettorali – resterà confinata al contrasto del terrorismo e dell’immigrazione clandestina l’Italia continuerà con il piccolo cabotaggio.
Se viceversa l’Italia (con tutte le alleanze necessarie) riuscirà a far passare una politica europea per l’Africa completamente nuova i frutti non mancheranno. Le relazioni Africa/Europa non sono buone; questa è la verità e non da oggi. Nel continente africano la sensazione di molti è che a Bruxelles interessi soltanto sigillare le frontiere e bloccare gli sbarchi.
Dobbiamo dimostrare viceversa che un altro approccio è possibile, a partire come ho sostenuto in tante occasioni dalla creazione in Africa di sistemi sanitari degni di questo nome. Ci sono progetti utilissimi che aspettano solo la volontà politica. Non c’è niente da inventare. Un solo esempio pratico. Il 20 marzo scorso (tre settimane prima dello scoppio del conflitto in Sudan) ho visitato l’ospedale di cardiochirurgia a Karthoum, realizzato da Emergency.
L’ospedale (che ha circa 500 dipendenti in grande maggioranza locali) non è solo un modello di eccellenza sanitaria per il Sudan e per i paesi confinanti, ma l’esempio paradigmatico emblematico di come operare con grande serietà ed efficacia.