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Guerra anche alla casa comune. Il papa spiegato con il libro di Piero Damosso

Nel libro di Piero Damosso, giornalista della Rai, per molti anni curatore di Uno Mattina, “Può la Chiesa fermare la guerra? Un’inchiesta a sessant’anni dalla Pacem in Terris” (San Paolo, euro 20,00) si trovano importanti spunti interpretativi per inquadrare la nuova “Laudato si’” annunciata da papa Francesco

Papa Francesco denuncia la nuova guerra mondiale, quella contro la casa comune, alla vigilia del suo viaggio per la Mongolia. Annuncia così la nuova “Laudato si’” per chiedere a tutti i cristiani di unirsi nella difesa della casa comune, il nostro pianeta, dopo aver ricordato nuovamente la martoriata Ucraina. Un fatto enorme. Ma per riuscire nell’intento non basta riconoscere che il problema non è se d’estate fa caldo e d’inverno freddo, occorre una visione: etno-nazionalismi e suprematismi lo impedirebbero, come lo hanno impedito sin qui.

Questa visione, che non può essere colta stando ad un semplice approccio ambientalista, l’ho trovata in questi giorni nel libro di Piero Damosso, giornalista della Rai, per molti anni curatore di Uno Mattina. Si intitola “Può la Chiesa fermare la guerra? Un’inchiesta a sessant’anni dalla Pacem in Terris” (San Paolo, euro 20,00). Già il titolo ci dà due riferimenti importanti: quel “fermare” non ci dice soltanto che la guerra già c’è per dirci che il libro parla (e molto) della guerra in Ucraina. No, non è solo questo. Ci dice, a mio avviso molto di più, che il male va contrastato, auspicabilmente fermato, sapendo che esiste. Quindi arriva il riferimento alla Pacem in Terris, decisivo per capire la sola visione che può portarci alle parole odierne di Francesco. E non solo perché l’anno 2023, anno della guerra in Ucraina e del temuto collasso ambientale, è anche il sessantesimo dalla promulgazione di quell’enciclica. Ma perché quell’enciclica ha fatto la storia. Ha fatto la storia perché a differenza di molti pronunciamenti ecclesiali non si confronta con un tema nella sua assolutezza, cioè con la sua definizione nella verità definita e quindi definitiva. L’enciclica di Giovanni XXIII parla della pace qui, sulla terra. Il testo è noto, a ciascuno per ciò che maggiormente lo riguarda: la distinzione tra errore ed errante è molto citata e giustamente, un po’ meno, e a mio avviso colpevolmente, il fatto che per la prima volta la più alta autorità cattolica, il papa, ha parlato proprio qui, nella Pacem in Terris, non dei diritti di Dio, ma dei diritti di ogni persona, i famosi diritti umani. Uno dei massimi studiosi di Giovanni XXIII, il professor Alberto Melloni, ha scritto pagine decisive, mostrando attraverso le diverse formulazioni e obiezioni dai “sacri uffici” al testo poi confermato dal papa, quanto questo passaggio sia stato capito e osteggiato in tutta la sua rilevanza da chi al tempo non lo condivideva. Quanti ancora osano dirsi contrari ai diritti umani? Se lo sono ma non hanno il coraggio di dirlo apertamente è anche, se non soprattutto, grazie a Giovanni XXIII. Il discorso non si esaurisce enunciandolo, si rinnova sempre, ma quel passo avanti è stato epocale.

Damosso nel primo capitolo ci presenta la sua lettura dell’enciclica, una lettura cattolica e affascinante. Perché quel che cita si aggiunge a ciò che è più citato e oggi si può cogliere come decisivo, chiave indispensabile per capire come si possa unirsi nella difesa della comune. Di tutto il lungo e decisivo preambolo giovanneo, mi preme infatti citare quanto di Giovanni XXIII ricorda a pagina 32 del suo libro Damosso e che ci mostra la assoluta capacità di visione e previsione che il cosiddetto “papa buono” ha avuto: “[le economie nazionali] si inseriscono progressivamente sulle altre fino a diventare ciascuna quasi parte integrante di un’unica economia mondiale: e il progresso sociale, l’ordine, la sicurezza, è in rapporto vitale con il progresso sociale, l’ordine la sicurezza, la pace di tutte le comunità politiche”. Straordinaria rimozione dalla politica attuale, straordinaria fotografia della nostra situazione ignorata, cancellata, ma evidente. Tanto che Giovanni XXIII poteva aggiungere: “Nessuno comunità politica oggi è in grado di perseguire i suoi interessi e di svilupparsi chiudendosi in se stessa. Giacché il grado della sua prosperità e del suo sviluppo sono pure il riflesso ed una componente del grado di prosperità e dello sviluppo di tutte le altre comunità politiche”. Facciamo un esempio per capire la profeticità di questo punto: l’Italia può prescindere dal petrolio libico? Ma se la Libia è nella tormenta, chi può pensare di prendersi il suo petrolio lasciando la popolazione tra lager e stermini? Certo, c’era il gas russo per chiudere le porte in faccia alla Libia. Non mi sembra sia stato saggio abbandonare la Libia ai predoni e consegnarsi mani e piedi a un soggetto terzo, lontano e non da noi condizionabile.

La Pacem in Terris riguarda tutti, vicini e lontani, ovviamente, quindi non prevede esclusioni. Io, se posso esprimere anche qui un commento, la vedrei basata sul buon vicinato, un meccanismo “contagioso”, l’unico meccanismo che può portarci a difendere insieme la casa comune. Perché il collasso ambientale, sociale, culturale della Libia sarà certamente un guaio anche per suoi vicini. Questa è solo una parte della visione che l’autore ci ricorda per dirci perché la Pacem in Terris ha fatto la storia. E ha fatto anche la storia con il citato e connesso paragrafo 73 del testo giovanneo, che Damosso con grande intelligenza collega a quello appena citato: “Come il bene comune delle singole comunità politiche, così il bene comune universale non può essere determinato che avendo riguardo alla persona umana. Per cui anche i poteri pubblici della comunità mondiale devono porsi come obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto la tutela e la promozione dei diritti della persona”. Eccoli dunque i diritti della persona! È questa la Pacem in Terris, cioè una visione cattolica e cioè universale che riconosce ogni “locale” e apre le porte alla visione di Francesco che invoca un’altra globalizzazione, non quella “reale”, rapace, che non rispetta né l’ambiente né le diversità, le culture dei popoli, ma una globalizzazione poliedrica che non vede un solo interesse, ma il bene di tutti i suoi diversi componenti.

Ecco perché la Laudato si’ è opportunamente citata da Damosso in questo capitolo di ricostruzione della lezione giovannea: “Dio ha creato il mondo per tutti”: difficile trovare una politica che ne prenda atto, ma anche difficile trovare un politico che possa negarlo, nonostante i tanti suprematismi. Qui c’è la visione del bene comune: il Creato, casa comune di tutti da lasciare in ordine ai figli di tutti: “È necessario schierarsi al fianco delle vittime dell’ingiustizia ambientale e climatica, sforzandosi di porre termine all’insensata guerra alla nostra casa comune, che è una guerra mondiale terribile”, ha detto oggi Francesco. Non è lo sviluppo logico e consequenziale di quanto scritto 60 anni da Giovanni XXIII? Ricorda Damosso che Francesco ha conseguentemente scritto nella Laudato si’: “Ogni approccio ecologico deve integrare deve integrare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei più svantaggiati”. La cronaca italiana di questi giorni, l’orrore di Coivano improvvisamente scoperto da molti, ci dice che questa è proprio una visione: tutto si lega.

Il volume prosegue con una lettura lungimirante e davvero originale della guerra in Ucraina. Damosso infatti è tra i primi autori cattolici che prospettano un’organica via pacifista non nel senso di cedimento o resa alla visione imperialista di Putin, né all’antiamericanismo ideologico. Questa parte del volume si snoda attraverso il racconto di cosa sia questa guerra grazie alle analisi dell’ambasciatore Pasquale Ferrara, dell’economista Stefano Zemagni, fino a pochi mesi fa presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e ad acute osservazioni di altri nomi eccellenti della cultura cattolica, come Alberto Melloni e Andrea Graziosi. Qui il pacifismo non è più un’ideologia che vede causa di tutti i mali né tanto meno un calcolo di interesse a breve termine, che invoca la resa Ucraina perché a noi utile per stabilizzare i prezzi e le forniture energetiche a prezzi migliori.

No, il pacifista di cui ci parla Damosso non parte certo però da una visione auto-assolutoria, ma sa tenere insieme i fatti nella loro evidenza. Mi limiterò all’approccio da cui partono i suoi interlocutori. Dice l’ambasciatore Ferrara: “Ci sono luoghi come l’Afghanistan, la Siria, lo Yemen, la stessa Libia, dove forme più o meno acute di conflitto sono in atto da anni. E ora che una guerra dalle conseguenze sistemiche e profonde infuria in Ucraina a seguito della brutale aggressione russa, sembriamo finalmente renderci conto che vaste aeree del pianeta sono sconvolte da conflitti endemici”. Dunque la forma auto-assolutoria era non guardare al di là del proprio naso, e scoprire la guerra ora che ci riguarda, mi sembra. Prosegue Zamagni: “Nel fallace tentativo di dare una giustificazione a questa guerra, la dirigenza russa evoca, per stigmatizzarlo e assumerlo come bersaglio militare, il cosiddetto Occidente collettivo, (Usa e Europa occidentale), cui attribuisce aspirazioni neo-colonialiste”.

Spiega l’autore: “Il neonazionalismo di Putin guarda al mito della grande Russia degli zar, prima dell’avvento del comunismo. È in un certo senso anche la prova che la dittatura comunista ha di fatto bloccato il pensiero della politica russa, così da impedire la sua evoluzione democratica, e quindi – dopo il suo fallimento – ha riportato alla luce il nazionalismo precedente”. In questo contesto le parole del patriarca di Mosca, Kirill, spiegano cosa stanno facendo di male le religioni in tanti contesto, divenendo strumenti della Nazione: “Siamo impegnati in una lotta che non ha significato fisico, ma metafisico”: il bene contro il male. Il ragionamento procede preciso, senza partigianerie o scelte ideologiche, e fa giungere al punto in cui non la pace come resa al più forte per quieto vivere nostro, ma la pace come composizione di ragioni che esistono si può trovare proprio in quella nuova Helsinki che il vaticano, meno i pacifisti ideologici, invoca da tempo. Gli accordi id Helsinki consentirono la nascita della Conferenza per li Sicurezza e la Cooperazione in Europa. E’ un accordo? No, è una visione. La sicurezza è un diritto di tutti, mi sembra di poter dire per riassumere, anche di Mosca, come la sovranità. E’ questo il senso di Sicurezza e Cooperazione oggi: una visione.

Questa visione, che sull’Ucraina viene affrontata nel dettaglio anche degli sviluppi possibili e di quelli che potevano esserci ma già abbiamo dimenticato, ci porta a quanto afferma Graziosi. Damosso lo cita legando guerra in Ucraina e guerra ambientale, così: “Se la ripresa di un dialogo e di un vero negoziato per l’Ucraina è drammaticamente richiesto anche per prevenire scenari catastrofici, una lezione che richiama il valore dello spirito di Helsinki può venire da una maggiore consapevolezza delle sconfitte delle guerre, dei nazionalismi e dei totalitarismi, dello stesso pianeta, che rischia il collasso ambientale, e come annota lo storico Andrea Graziosi, dell’esito di una decolonizzazione che ha relegato tutta l’Europa nel campo dei vinti (un destino che Mosca, grande centro imperiale, è riuscita a lungo a evitare grazie all’ideologia sovietica). Dunque ricominciare dalle sconfitte può dare la consapevolezza nuova per un disegno di pace capace di coinvolgere tutta la comunità internazionale, fondato sul senso di comunità e di orgoglio per la grande cultura europea, e per il suo pensiero democratico, solidale e inclusivo”. Tutto si lega, e quello di Damosso mi sembra il libro migliore per capire le sfide della pace e della difesa della casa comune.


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