Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Le contorsioni di Renzi su salario minimo e Cnel. Scrive Polillo

Il problema del giusto rapporto tra la contrattazione sindacale e le tutele del “lavoro povero” non possono essere risolte da un numero magico, qualunque esso sia. Richiedono, al contrario, un confronto di merito che tenga conto delle caratteristiche effettive della realtà italiana. Il commento di Gianfranco Polillo

Per la verità ad andare al “massimo” o al “minimo”, come scrive Matteo Renzi su il Riformista, non sono i populisti. Ma l’Europa. Diciamo la verità, se il Parlamento europeo e la Commissione non avessero varato la direttiva 2022/2041, la discussione sul salario minimo sarebbe rimasta ferma al 2014. Quando l’allora ministra del lavoro dei 5 Stelle, Nunzia Catalfo, dopo essersi spesa per il reddito di cittadinanza, propose uno dei primi disegni di legge sul “salario minimo”. Rimase ovviamente lettera morta. Stessa sorte toccò, tuttavia, allo stesso Matteo Renzi, che oggi sbraita contro tutto e tutti. Identica fu la sua proposta – un salario minimo legale tra i 9 ed i 10 euro l’ora – lanciata in vista dell’imminente campagna elettorale nel gennaio 2018.

Accostamenti che danno da pensare. La proposta dei 5 Stelle – articolo 2 – prevedeva un salario pari 9 euro l’ora. La stessa di cui oggi si discute, avallata dalla successiva iniziativa dell’allora capo del Pd. Se si considera che da quel periodo – il 2014 – l’inflazione si è mangiato circa il 22 per cento di quel valore, ne discendono alcune conseguenze. Quel valore iniziale era troppo alto prima o è troppo basso ora. E in effetti se si considera che nel 2021, secondo i dati Istat, la soglia della povertà assoluta, nel Nord più avanzato, è stata pari ad un salario mensile di 852,83 euro, i confronti sono presto fatti. Il salario minimo, in tutto il territorio nazionale sarebbe pari – secondo la metodologia prevista da Eurostat – a 914,33 eur. Una manciata di spiccioli oltre la soglia della povertà assoluta nel Nord. Mentre nelle zone più povere del Sud – soglia di povertà assoluta pari a 576,63 euro al mese – il relativo vantaggio sarebbe pari a quasi il 60 per cento.

Inconvenienti di un Paese, come l’Italia, troppo lungo e troppo stretto, dove le media nazionali somigliano, da vicino, al pollo della poesia di Trilussa. Bisogna partire da qui per comprendere come mai Giorgia Meloni abbia dovuto chiamare in causa il Cnel. Cosa che Renzi non ha capito. Il problema del giusto rapporto tra la contrattazione sindacale e le tutele del “lavoro povero” non possono essere risolte da un numero magico – qualunque esso sia – estratto dal cilindro di un prestigiatore. Richiedono, al contrario, un confronto di merito che tenga conto delle caratteristiche effettive della realtà italiana.

Una volta, in passato, la struttura di massa dei partiti politici consentiva di realizzare in casa questi confronti e trovare la necessaria – che poi fosse anche quella più giusta, tutto da discutere – mediazione. Ma a seguito della loro sostanziale trasformazione in comitati elettorali, occorre qualcosa di più. Avere a disposizione un organo in cui le parti sociali, o se si preferisce “i corpi intermedi”, possano liberamente dire la loro e trovare le giuste intese, avendo come punto di riferimento un interesse più generale.

Non si capisce pertanto l’ostilità preconcetta del leader di Italia Viva contro il Cnel. Gli brucia ancora la sconfitta sul referendum? Quando allora puntava sulla sua soppressione. Ma successivamente, la presidenza di Tiziano Treu, sembrava aver rimesso le cose a posto. Tacitando le stesse malelingue che avevano ipotizzato che quell’impuntatura contro il Cnel non fosse altro che le brame di un desiderio: appropriarsi della sede – Villa Lubin – per utilizzarla in modo difforme. Ma se è così, perché infierire contro il nuovo presidente. Solo perché non appartiene alla stessa formazione politica? O perché sul referendum costituzionale Renato Brunetta aveva assunto una posizione netta contro quella proposta, per la verità, più che abborracciata?

Difficile rispondere. Matteo Renzi è un politico atipico, rispetto alla tradizione italiana. Vive giorno per giorno. Non ha una sua strategia. Basta vedere i suoi scarti d’umore. Come quando, nel settembre 2019, dopo aver favorito la nascita del Conte II e fatta naufragare la presunta intesa tra Matteo Salvini e Nicola Zingaretti su possibili elezioni anticipate, si dimise dal Partito democratico. Per fondare Italia Viva. In questo è il figlio prediletto di quella modernità che, almeno fino a ieri, pensava di avere in tasca il mondo. E che la “fine della storia” fosse veramente dietro l’angolo. Poi il triste risveglio, con il fragore dei missili che cadono su Kiev, e il delirio putiniano. E di nuovo il salto di paradigma. Ed allora è facile capire come mai il protagonista di ieri di tante battaglie politiche non sappia più che pesci pigliare.

×

Iscriviti alla newsletter