Nei giorni scorsi il controspionaggio tedesco ha messo la classe politica e amministrativa in guardia dal capo del dipartimento per le relazioni internazionali del Partito comunista. Che di recente è stato in visita in Italia, dove invece…
Il controspionaggio tedesco ha messo in guardia il Paese, in particolare politici, funzionari e industriali: il dipartimento per le relazioni internazionali del Partito comunista cinese “agisce di fatto come servizio di intelligence della Repubblica popolare cinese”. È quanto si legge in una nota dell’Ufficio federale per la protezione della Costituzione (Bundesamt für Verfassungsschutz, BfV).
Si tratta, come già ricordato su queste pagine, del dipartimento guidato da Liu Jianchao, che un mese fa era stato in Italia per incontrare la politica e le imprese italiane, per parlare di commercio e politica, in particolare del memorandum d’intesa sulla Via della Seta. Parlando di “fiducia” aveva auspicato che il governo Meloni faccia la scelta “corretta” sul rinnovo dell’accordo che invece l’esecutivo sembra deciso a evitare. A Roma aveva incontrato Ignazio La Russa, presidente del Senato e seconda carica dello Stato, Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, già presidente del Consiglio, Elly Schlein, segretaria del Partito democratico, i rappresentanti della galassia comunista italiana e l’associazione parlamentare di amicizia Italia-Cina. A Milano, invece, aveva partecipato a un evento dell’Italy China Council Foundation.
Nel suo tour europeo Liu aveva fatto tappa anche in Irlanda e Regno Unito. A differenza di quanto accaduto in Italia, il suo arrivo a Londra era stato anticipato dalla lettera di un gruppo bipartisan di deputati al primo ministro Rishi Sunak con la richiesta di riconsiderare la possibilità di rilasciare il visto. La motivazione era un report dell’organizzazione Safeguard Defenders secondo cui Liu, in qualità di direttore dell’Ufficio per la cooperazione internazionale della Commissione centrale per l’ispezione della disciplina del Partito comunista cinese, aveva il comando diretto e la responsabilità di migliaia di operazioni internazionali di “recupero” di dissidenti.
Ma anche senza la nota dell’intelligence tedesca o il report di Safeguard Defenders, il lavoro del dipartimento poteva essere noto. L’ex direttore Song Tao, che oggi guida l’Ufficio Taiwan del Consiglio di Stato cinese, lo aveva come uno strumento di “scambi e cooperazione con i partiti politici stranieri” per “influenzare gli atteggiamenti e le politiche degli altri verso la Cina, e far sì che gli altri comprendano, rispettino e approvino i nostri valori e le nostre politiche”. Ossia uno strumento di influenza.
Letta in controluce, questa vicenda sembra suggerire che mentre il governo sta consolidando la consapevolezza di ciò che la Cina rappresenta sia come opportunità sia come rischi, la burocrazia italiana – gli apparati sicurezza e la diplomazia, per citare due esempi – riflette ancora il tradizionale approccio nostrano, dialogante ai limiti del naïf, che rischia di lasciare il Paese a un guado poco consigliabile, tanto meno mentre si avvicina il termine per la decisione sul rinnovo del memorandum d’intesa sulla Via della Seta: né business né sicurezza nazionale.